Il monastero di Azer, l’unico “spreco” che serve (alla Siria e a noi)

La mostra "Azer" del Meeting raccontata da suor Marta, che ha fondato il monastero in terra islamica raccogliendo l'eredità dei monaci di Tibhirine: «Solo Dio può rispondere ai veri bisogni dell'uomo»

Suor Marta spiega la mostra “Azer” al Meeting di Rimini

Ma che bisogno c’è di costruire un grande monastero ad Azer, al confine con il nord del Libano, in un paese come la Siria piagato da oltre dieci anni di guerra, da un terremoto devastante, dal colera e dalla miseria inasprita dalle sanzioni occidentali? Perché non donare ai poveri tutto il cemento, il ferro e il denaro necessario a costruire il monastero? Perché sprecarlo per trapiantare quattro monache trappiste italiane da Valserena in un’area rurale, a stragrande maggioranza musulmana, con due soli piccoli villaggi abitati da 500 cristiani in tutto? «Il nostro è un ritorno alle radici del monachesimo, deciso per raccogliere l’eredità dei monaci di Tibhirine», spiega a Tempi suor Marta, tra le fondatrici del monastero, guidandoci tra i pannelli e i filmati della bellissima mostra “Azer”, allestita nel padiglione C3 del Meeting di Rimini. «Il nostro è uno “spreco” evangelico, gratuito, per Dio: l’unico che può rispondere ai veri bisogni dell’uomo».

Da Tibhirine ad Azer

La fondazione del monastero di Azer, tuttora in costruzione e per il momento sostituito da un piccolo ed essenziale “monasterino”, non è soltanto una storia di incredibile fede e coraggio, è anche il prodotto di una costellazione di amicizie inesauribili, che rende l’avventura di queste monache tenaci l’esemplificazione perfetta del titolo del Meeting di quest’anno.

Tutto ha avuto inizio da un evento drammatico: l’assassinio nel 1996 in Algeria dei monaci trappisti che vivevano nel monastero di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine. «Dal martirio dei nostri fratelli», spiega suor Marta, «abbiamo approfondito la loro vita e la loro testimonianza di comunità cristiana in terra musulmana».

Sono loro ad aver insegnato alle trappiste di Azer che «il vero dialogo con l’islam è possibile solo se si resta saldi e si approfondisce la propria identità cristiana. Vivere in un contesto dove siamo minoranza ci aiuta a riscoprire le radici e l’essenza della nostra fede».

«Siamo rimaste in Siria per Cristo»

Raccogliendo l’invito dell’abate generale dell’ordine trappista di raccogliere l’eredità di Tibhirine, nel 2005 quattro monache italiane – Marta, Marìta, Mariangela e Adriana – arrivano ad Aleppo, in Siria. Tre anni più tardi trovano un terreno adatto «ed economico» su una collina nella provincia di Homs dalla quale si scorge il Mediterraneo e il 26 marzo 2008 la Croce di Fondazione del monastero Beata Maria Fons Pacis viene benedetta e solennemente impiantata ad Azer.

Nessun altro nome sarebbe potuto essere più indicato, visto che da lì a tre anni la guerra avrebbe sconvolto la Siria, mettendo in grave pericolo anche la vita delle monache. Le quali, però, non se ne sono mai andate. «Certo che avevamo paura», continua madre Marta. «Per anni dei missili hanno sorvolato la nostra testa ogni giorno. Noi siamo rimaste, come i monaci di Tibhirine, per Cristo. La gente ha bisogno di speranza e qui da noi l’ha sempre respirata. È capitato anche che qualche musulmano ci abbia chiamato “le nostre suore”: apprezzano la nostra testimonianza di vita, che non ha bisogno di tante parole».

L’amicizia imprevedibile con Banco Building

C’è un voto, proprio dei trappisti, oltre a quello di “conversione” di vita, che aiuta a capire la scelta fatta dalle monache durante la guerra. È quello della “stabilitas loci”, cioè «la chiamata a vivere il rapporto con Cristo per tutta la vita in un luogo preciso e in una comunità stabile, che cambia solo nel caso di una nuova fondazione», spiega madre Marta, facendo strada tra i pannelli della mostra. «Cristo si è incarnato in un momento storico preciso, conferendo così importanza ad ogni vicenda della vita e ad ogni luogo. Dio ci viene incontro dovunque».

Spesso lo fa in modi imprevedibili. È il caso dell’incontro con Avsi, con l’ingegnere Alberto Mazzucchelli, progettista del monastero, e con Silvio Pasero, presidente del Banco Building, che raccoglie le eccedenze di magazzino che altrimenti andrebbero distrutte delle aziende e che è tra i realizzatori della mostra. Ogni incontro meriterebbe un libro, ma quest’ultimo è davvero «miracoloso».

Nel 2017, quando alle fondatrici si unisce anche l’angolana Adelaide, in Siria cessano i combattimenti ma manca l’elettricità per pompare l’acqua e conservare i viveri. Suor Marta telefona “per caso” all’amico Silvio. La trappista, raccontando la situazione, spiega che le servirebbero 2.000 mq di pannelli solari per il convento e altrettanti per fornire elettricità ai villaggi vicini. Non si aspettava certo la risposta del presidente del Banco Building: «Due giorni fa ci hanno donato 4.000 mq di pannelli e ci chiedevamo giusto che cosa farne».

Il monastero di Azer e il vero dialogo

La costruzione del monastero Beata Maria Fons Pacis sarà conclusa nei prossimi anni, se verranno trovati i fondi sufficienti. Le trappiste sono certe che servirà al popolo siriano più di mille elemosine. «Dio mette la sua firma dentro ciascuno di noi», dice una delle monache in uno dei filmati della mostra, «e nessuno può trovare la pace fino a quando non trova Dio. I monaci sono coloro che lo hanno capito prima di altri e su questo scommettono tutta la vita».

È un linguaggio che non ha bisogno di parole per comunicarsi e sul quale le monache instaurano il dialogo con i tanti musulmani che le circondano e le apprezzano. Il monastero di Azer in Siria è il simbolo dell’amicizia possibile con altre fedi e del sostegno ai cristiani. «La gente cerca l’autenticità di una esperienza religiosa e qui la trova. È questo che permette l’unità nella diversità».

@LeoneGrotti

Exit mobile version