Il gioco della nebbia sull’Appennino emiliano

Appennino emiliano, novembre – Un pomeriggio d’autunno sull’autostrada Parma-La Spezia. Giorno feriale, poco traffico. Dall’Autosole la A 15 si dirama verso ovest, larga e piana.

Cielo oscillante tra il bianco e l’acciaio. Passo accanto allo stabilimento Barilla, grosso, rassicurante, terragno. Poi impercettibilmente la strada inizia a salire; intorno si alzano i colli dell’Appennino, selvatici, aspri. Scalo una marcia.

Guido sovrappensiero, solo notando, ai lati, la valle del Taro che va stringendosi, a monte; e il fiume sotto, a tratti, chiaro. Supero Tir ansanti, sbuffanti fumo nero. Ora cominciano le curve e le gallerie. Rallento. Mi piace questo serpente d’asfalto deserto, sotto a questo enigmatico cielo. Penso a mio padre, che da ragazzo da Parma al passo della Cisa andava in bicicletta. Penso che questi boschi erano uguali, e anche questo cielo.

Di colpo in un rettilineo su un viadotto: la strada e la montagna attorno, tutto è ingoiato da un banco di nebbia. Improvvisamente, nel nulla. Freno, e sento la scarica di adrenalina nel sangue. Il nulla dura quanto? Cinque secondi, forse. Poi si dissolve: la valle attorno è quella di prima, posso distinguere ogni particolare sulle facciate dei casolari.

Ora sono quasi all’altezza della Cisa. Di nuovo, repentino come un ladro, un banco di nebbia cancella ogni cosa, in una vertigine lattea. Ma già ne sono fuori. Dalla parte del mare si va allargando un chiarore giallino, come un sole stentato.

Gioca, la nebbia: vela e disvela, annienta e restituisce. Mi affascina. Rallento. Quella cascina là, per esempio, in lontananza, ai margini di un bosco, sarà vera o no, lambita com’è dalle lingue di nebbia? Mi viene in mente una lettera di mio padre a mia madre, da fidanzati, nel 1938; in cui lui parlava dei boschi di Corniglio, un paese di questi, e di come un giorno, da solo, per i sentieri si era perso. Trovando alla fine con sollievo una cascina in cui una vecchia lo aveva fatto entrare, e mangiare, e scaldare davanti al camino; senza però pronunciare una parola, di modo che mio padre si era chiesto se era muta, o demente. E poi, accomiatandosi, di compenso la vecchia sconosciuta non aveva voluto niente.

Magari è questa che vedo da lontano, in un istante limpido, la casa di quel giorno. Mentre la guardo, di nuovo una zaffata di nebbia colma la valle. Tutto scompare. E quel ragazzo, e quella vecchia muta e gentile?

La nebbia mi ha preso come compagna di gioco. Come dicesse: vedi come svanisce ciò che tu chiami reale, e come invece si alzano intatti i ricordi. Dalla cascina ora, mi accorgo, si alza un filo di fumo (non vuoi andare a vedere chi c’è al camino, a scaldarsi?) Ma io sorrido: sciocchezze. Poi al casello, mentre il cielo si apre, nostalgia di quella nebbia fluttuante, del suo gioco che mescola terra e cielo. E forse anche, ammetto di aver avuto il dubbio, arcanamente capovolge il tempo.

48/2012

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