«Il dibattito sull’art.18 è ideologico e interessa la minoranza dei lavoratori italiani»

Difendere o abolire il tanto conteso articolo 18? Prima di ogni decisione occorre recuperare la valenza educativa e formativa dell'occupazione

Pubblichiamo l’articolo “Il lavoro oltre l’ideologia”, che appare sullo speciale Capitale Umano, in allegato al numero 11/2012 di Tempi, da oggi in edicola

Il ministro Elsa Fornero ha più volte ribadito di voler concludere la riforma del lavoro entro il mese di marzo. L’intenzione dei tecnici di via Veneto è quella di permettere un più facile e sicuro ingresso dei giovani nel mercato del lavoro superando il tradizionale dualismo insiders (occupati sindacalmente garantiti) contro outsiders (i tanto mediatici “precari”). L’obiettivo è assolutamente condivisibile, ma la storia delle relazioni di lavoro del nostro paese ci insegna che le concezioni e i valori si giocano nella precisione delle scelte tecniche e piccoli interventi legislativi possono avere devastanti effetti reali. Da almeno un mese il dibattito è stato confinato attorno al sempreverde dilemma dell’articolo 18: abolirlo, modificarlo o lasciarlo invariato? Dal Libro Bianco del 2001 a oggi pare essere questo lo scoglio su cui si infrange ogni tentativo di riforma del diritto del lavoro. A chi riuscirà nell’intento è probabilmente destinata eterna memoria. Tuttavia, mentre sindacati e partiti politici litigano attorno a una norma che ha la forma di una bandiera, circa 14 milioni di lavoratori sono assolutamente indifferenti alla diatriba perché non coperti dall’oggetto del contendere. Si tratta di dipendenti di aziende con meno di 15 assunti, di associazioni, di imprese senza fini di lucro, lavoratori autonomi (partite Iva e contratti a progetto), tirocinanti… Insomma, ben più della metà dei lavoratori italiani. Per loro le tante parole sull’articolo 18 suonano lontane e probabilmente un po’ vetuste.

Le istituzioni internazionali ci chiedono di intervenire prontamente abbattendo le rigidità dell’italico regime di protezione dell’impiego, in forza dell’assunto “maggiore rigidità regolatoria sul licenziamento uguale minore propensione ad assumere”; come in tutte le scelte importanti, anche in questa non è una posizione unanime dell’accademia: molte ricerche confermano l’ipotesi, altrettante la smentiscono. È arrivata l’ora dell’abolizione dell’articolo 18? Se non ora, con un governo tecnico libero dall’immediato confronto col consenso popolare, quando? Il sindacato, ben conscio della limitata applicazione di questa norma e della sua anarchica interpretazione nelle aule dei tribunali, potrebbe sparigliare le carte e volontariamente perdere questa battaglia delle terre lontane, ottenendo in cambio la vittoria al fronte: maggiori salari ed effettiva, reale, calcolabile nuova occupazione. L’articolo 18 ostacola le assunzioni? Bene, allora non sarà un problema impegnare la controparte in un piano di massicci nuovi inserimenti, soprattutto dei giovani. Se la stessa controparte non ne è certa, l’inganno è svelato. Tra quelli che non si stanno appassionando al dibattito ci sono i giovani, poiché non sono tutelati da questo articolo dello Statuto dei lavoratori e, se verificato l’assunto di cui sopra, godrebbero della sua abolizione solo indirettamente. Chi entra oggi nel mercato con un contratto a tempo indeterminato? Qualche lavoratore pubblico forse (ma neanche tanti, considerato che la massa critica di “precari” è alle dipendenze dei datori di lavoro pubblici). Come intervenire? Piuttosto timidamente il ministro Fornero aveva abbozzato le parole “contratto” e “unico”, ma la reazione delle parti sociali è stata stranamente unanime: lasciamo perdere la teoria e guardiamo alla realtà. La realtà dice che l’unica arma che può garantire i giovani contro la variabilità del mercato è la formazione. Non a caso già Marco Biagi nella sua bozza di Statuto dei lavori (che comprendeva il superamento dell’articolo 18 all’interno di un cambio di paradigma ben più ampio e sussidiario) parlava della formazione continua come nuovo diritto “postmoderno”, al pari di salute e sicurezza, della libertà sindacale e dell’equo compenso. Le tante proposte di contratto unico che si sono susseguite negli ultimi mesi (da Boeri a Ichino, passando per il progetto di legge Damiano) sono invece costruite attorno alla maggiore flessibilità in uscita, pur indennizzata, più che sull’importanza della componente formativa. Come hanno notato i tre sindacati nel documento “Per il lavoro, la crescita, l’equità sociale e fiscale” presentato a gennaio, non c’è bisogno di inventare un contratto per i giovani, protetto e formativo, perché esiste già: è l’apprendistato, definito da regioni e parti sociali come il principale canale di ingresso nel mondo del lavoro.

Il “caso apprendistato” è un paradosso interessante. Nonostante la teorica approvazione di tutte le parti e gli esiti positivi in altri paesi, dal 2003 a oggi il numero degli apprendisti è rimasto basso (circa 540.000, dati 2011). E deve il suo aumento alla sola espansione di una specifica tipologia di apprendistato, quella professionalizzante, la meno “genuina” se confrontata alle altre modalità europee, che ha assorbito in termini numerici il vecchio contratto di formazione e lavoro. Sono quasi nulle le sperimentazioni delle due fattispecie davvero orientate ai giovani: il cosiddettoil primo livello per l’espletamento del diritto dovere lavorando e l’apprendistato di alta formazione per ottenere una laurea, un dottorato o svolgere un periodo di ricerca senza interrompere l’esperienza lavorativa. Il nuovo Testo Unico dell’Apprendistato, datato settembre 2011, ha lo scopo di restituire operatività a questo contratto, che la Finanziaria di agosto ha reso ancor più vantaggioso per le imprese (decontribuzione assoluta per le aziende con meno di 10 dipendenti, aliquota del 10 per cento per tutte le altre). Si spera che il governo, preso atto della ferma posizione di sindacati e associazioni datoriali, non decida di intervenire sulla norma rimandando per l’ennesima volta l’entrata in vigore delle novità. Dietro la soluzione tecnica dell’apprendistato si gioca la direzione culturale che deve guidare i prossimi interventi di riforma orientati alla maggiore occupazione dei giovani: l’affermazione della valenza educativa e formativa del lavoro. In Italia ha purtroppo vinto, negli anni, l’indifferenza verso la costruzione di percorsi scolastici e universitari che concilino apprendimento e lavoro. Le più recenti ricerche economiche dimostrano che laddove sono maggiormente diffuse offerte formative incentrate sull’apprendistato e l’alternanza scuola lavoro sono migliori i tassi di disoccupazione, occupazione e inattività giovanile. Nessuna legge è capace di sconfiggere una pregiudizio culturale (“chi studia comanda, chi non studia obbedisce”). Senza la riscoperta che qualsiasi lavoro esprime un valore formativo straordinario ed esige la padronanza di conoscenze e competenze, saremo condannati a concepire come separati il periodo dell’apprendimento da quello del lavoro. Continueremo a inseguire il rendimento dei titoli di Stato tedeschi, senza chiederci perché sia così forte e competitivo quel sistema economico, dove ci sono tre milioni di apprendisti.

*Emmanuele Missagli è Vicepresidente Adapt (Associazione per gli Studi Internazionali e comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni Industriali)
 

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