Il Cristo del Grande Inquisitore è un fantasma

A duecento anni dalla nascita di Dostoevskij ripercorriamo uno dei passi più celebri de I fratelli Karamazov

Lo scrittore russo Fedor Dostoevskij

A duecento anni dalla nascita di Fedor Dostoevskij, la sua opera mostra, ancora, una forza vibrante e attuale. Il suo nucleo teorico-esistenziale resta incandescente e carico di significato. Il genio russo è riuscito, infatti, come nessun altro, a scendere negli abissi del cuore umano, sottolineando la larghezza della vita. Ed è proprio tale vastità a fare paura e a far sì che l’uomo cerchi l’insediamento nella tranquillità e in una comodità acquietata. Ancora oggi è meglio conservare il proprio pacifico posto al sole, piuttosto che sfidare con ingenua baldanza il Potere.

Il Grande Inquisitore

Il Grande Inquisitore, celebre personaggio dello scrittore, ne I fratelli Karamazov intravede tale preoccupata debolezza umana che preferisce la calma olimpica al rischio della libertà. Assicura, perciò, con il suo ordine totalitario una falsa verità filantropica a tutti comprensibile e accettabile: la liberazione dal terribile tormento di dovere personalmente e liberamente decidere.

La sua mistificazione si basa sull’accettazione delle domande terribili fatte dallo spirito impuro a Gesù. Basta accettare, insomma, il pensiero dominante e anestetizzante, vendendo la propria coscienza, per vivere nella sicurezza aproblematica e protetta. Tale riparo tuttavia non è innocuo e senza conseguenze. L’Inquisitore vuole giungere non solo al dominio del cuore dell’uomo, ma alla damnatio memoriae, alla cancellazione della Presenza dalla storia. Il nichilismo attivo ed estremo di cui è portatore, dunque, vuole arrivare all’espulsione del Cristo dalla vita e dalla memoria umana.

Il Cristo fantasma

Nel mio saggio Dostoevskij. La salvezza in scena (Jaca Book 2021), sulla scia di Romano Guardini, autore de Il mondo religioso di Dostoevskij (Morcelliana 1951), affermo, perciò, che il bacio del Cristo al Grande Inquisitore, spesso considerato positivamente nella letteratura critica, non è un misterioso atto d’amore, ma una resa incomprensibile al Potere mondano non corrispondente al pensiero di Dostoevskij.

Detto altrimenti, il Cristo che bacia il cardinale novantenne non è il Gesù del Vangelo, ma solo un fantasma: il Cristo esangue e passivo che l’Inquisitore vorrebbe. Non dunque il Cristo del secondo ritorno, ma un alter Ego dell’Inquisitore comodamente manipolabile.

Da Cristo a Cristo

Ma il Cristo a cui lo scrittore russo aderisce non è un fantasma, non è un miraggio effimero, senza riferimento al Padre e senza amore per il popolo. Non è, infatti, né il Cristo presentato dal docetismo né quello della gnosi di Valentino. È, infatti, il Gesù di chi aveva ascoltato Le Lezioni sulla Divinoumanità di Vladimir Solov’ëv e di chi riteneva preferibile restare con Cristo anziché con la verità comunemente accettata. E in particolare l’energia viva e vera che aveva sperimentato e che lo aveva sostenuto nella sua vita travagliata, segnata da dolorosi lutti familiari, dramma dell’esilio e del carcere, esperienza della malattia, coazione a giocare, debiti e tentazioni.

Non a caso lo slavofilo Konstantin Aksakov, dopo la morte dello scrittore scrisse: «Tutto in lui partiva da un punto e a quest’unico punto si riconduceva: da Cristo a Cristo». Un Gesù vero uomo e vero Dio, perciò, in grado di cambiare il cuore dell’uomo e la direzione della storia. Una Presenza certa, rispondente alle domande drammatiche dell’uomo, operante nella vita del testo e del soggetto.

La sofferenza di Mitja

Tale Presenza ineffabile, inoltre, negli scritti dostoevskiani sfida la libertà, la chiama in causa, svegliandola dal torpore. Il sì del soggetto alla sua stessa libertà vittoriosa su un ottuso quietismo, viene sorretto e aiutato da una compagnia nell’anima, portando all’oltrepassamento di razionalismo e positivismo.

È il caso di Mitja Karamazov. Egli ha desiderato concretamente la morte del padre, perché ottenebrato dalla passione, ma non lo ha ucciso. Viene ingiustamente considerato colpevole dell’omicidio del padre e condannato a una pena sproporzionata rispetto alla colpa effettiva. Ha la possibilità di scappare, ma non lo fa. Accetta l’ingiusta sentenza per un bene più grande e valido per tutti. Aderisce con la sua libertà in azione al Cristo crocifisso. La sofferenza di Mitja non è, perciò, fantasmatica ma reale, come quella del suo creatore, condannato in gioventù al bagno penale in Siberia.

Io esisto

La sofferenza sproporzionata di Mitja rispetto al male commesso è, dunque, una possibile risposta alla sofferenza innocente del “bimbino” tremante. Un dolore reale e non mentale-spirituale come quello dell’Inquisitore e del fratello Ivan. Una sofferenza da cui emerge qualcosa di imprendibile e di misterioso che vince il nulla. Mitja Karamazov, infatti, dice: «Io adesso sento in me tanta forza che trionferò di tutto, mi sembra di tutte le sofferenze, purché possa dire a me stesso ogni minuto: esisto! Mi dibatto tra mille tormenti, ma esisto, sono alla tortura ma esisto! Sono alla gogna, ma esisto anch’io e vedo il sole e, se non lo vedo, so che c’è».

L’“io esisto”, ripetuto, differentemente, da Mitja Karamazov (personaggio filosofico per eccellenza), ben quattro volte, indica che il soggetto sembra trovarsi in un luogo non proprio da cui emana una pienezza presente e vivente. Tale affermazione non è il frutto di uno sforzo di volontà o di un atto razionale sagacemente avveduto, ma dell’abbandono a una commozione infinita e a un amore folle risorto: esso sì veramente filantropico.

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