Il colpo in banca di Renzi. Tutto per salvare (forse) le disastrate Mps e Carige?

«Garantire credito a imprese e famiglie». Così Renzi ci vende la trasformazione delle popolari in Spa. Ma di fatto consegna alla finanza internazionale un patrimonio fondamentale per il territorio italiano

Liniziativa economica privata in Italia è libera… un tempo, dovremmo aggiungere. Perché per il credito cooperativo, presto non lo sarà più. Almeno non quanto lo era prima. Ha fatto scalpore la mossa del governo Renzi di riformare, per così dire motu proprio, in barba ai dettami costituzionali degli articoli 41 e 45 della Carta, le banche popolari, abolendo per decreto legge il principio del voto capitario (quello per cui una testa vale un voto) e trasformandole così, in anonime società per azioni. Dove a contare sono gli azionisti di riferimento e non più le assemblee dei soci. Almeno non in quegli istituti che già dispongono di un patrimonio pari ad almeno 8 miliardi di euro. Lì, infatti, è stata posta un’asticella dai grigi tecnici del ministero.

Sono dieci gli istituti che, entro diciotto mesi a partire dalla data di conversione in legge del decreto, dovranno migrare verso nuova natura. Tra questi spiccano i nomi del Banco popolare, Ubi banca e Bpm. Ma ci sono anche Banca popolare dell’Emilia Romagna, di Sondrio, Credito valtellinese, Popolare dell’Etruria e del Lazio, di Vicenza, di Bari e Veneto Banca. E queste tre ultime nemmeno sono quotate in Borsa. Che piaccia oppure no, il voto dei loro soci (o forse dovremmo già chiamarli ex soci) è destinato a non contar più nulla. Semplicemente perché sparirà nella nuova veste societaria.

Ciò significa, per farla breve, che paesani e parrocchiani, che finora hanno avuto l’ardire di voler dire la propria in merito a progetti da finanziare, scuole e opere da edificare grazie ai sempre lauti finanziamenti e donazioni delle banche popolari, non solo non potranno più farlo, ma saranno costretti a rivolgersi a sconosciuti azionisti di riferimento, ignoti mister “x” che stanno seduti nelle loro comode poltrone della City londinese o di Wall Street. Oppure, perché no, a Singapore e Shanghai, sempre che riescano a intendersi con la lingua. Così vuole la rottamazione di un modello di banca, vera e propria eccellenza del made in Italy, che ha reso celebre il nostro paese in tutto il mondo. Come duecento anni di storia e tradizione creditizia, cattolica e popolare, sono lì, pronti a dimostrare. Checché ne pensino le firme di punta dell’Economist per cui le popolari hanno avuto la sfacciataggine di rimanere «profondamente legate alle Regioni e alla Chiesa cattolica», che – così credono oltremanica – «si oppongono al cambiamento».

Chi, invece, al cambiamento non si è opposto, anzi l’ha spinto, è il premier Renzi, che ha gridato a tutto il mondo di non aver «avuto paura di intervenire sul numero di parlamentari» e così, paura non ha avuto nemmeno «di farlo sul numero dei banchieri». Che importa se ad essere «cresciute a dismisura sono soprattutto le maggiori banche», piuttosto che le popolari, ha fatto notare sul Sole 24 Ore l’economista della Bocconi Marco Onado, già commissario della Consob? Quelle medesime banche che, per essere più precisi, durante la crisi «si sono dimostrate troppo grandi non solo per fallire, ma anche per essere gestite correttamente». Secondo Onado, infatti, «non è detto che le dimensioni siano la soluzione al nodo del credit crunch», perché «la paralisi del credito ha origini strutturali in tutti i paesi della periferia d’Europa». E comunque, ribadisce Onado, le banche popolari sono quelle che «negli ultimi anni hanno ampliato il credito in essere». Perché riformarle d’imperio con un pretesto che, alla prova dei fatti, non regge?

Se è questo il modello che l’esecutivo ha in mente per le banche popolari, almeno lo dica chiaro e tondo. Invece no. Annunciando il decreto, in una nota il governo ha spiegato che «la finalità ultima dell’intervento è garantire che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e imprese», per «favorire la disponibilità di servizi migliori e prezzi più contenuti».

Il confronto con l’estero
Difficile crederlo, considerando che, secondo la Cisl, le banche popolari hanno erogato alle pmi 148 miliardi che sommati a quelli delle banche di credito cooperativo arrivano a quasi 240 miliardi di euro nel corso del 2014. Aumentando, per di più, il flusso dei nuovi finanziamenti concessi nell’ultimo anno di 35 miliardi di euro. Qualcuno, dal governo, potrebbe dare spiegazioni a riguardo ai cittadini con la medesima semplicità comunicativa che è così cara al premier Renzi e al suo entourage? E già che c’è, potrebbe anche spiegare come mai in Francia le banche cooperative non sono scalabili per legge, perché tutelate come beni pubblici? Oppure perché la Germania non si sogna nemmeno per scherzo di rinunciare alle sue potenti landesbanken e sparkassen?

Il presidente del Banco Popolare Carlo Fratta Pasini ha provato a dare qualche idea, affidando il suo pensiero a una missiva vergata a quattro mani con l’ad del gruppo Pier Francesco Saviotti, che ha inviato ai suoi dipendenti l’indomani del fattaccio. Il decreto governativo, scrive Fratta Pasini, è un provvedimento «denso di radicali conseguenze», che non fa i conti con il fatto che «il modello localistico di banca non è praticabile al di fuori dei due modelli cooperativi esistenti: quello di banca popolare e quello delle Bcc». Che peraltro, crisi o non crisi, si sono sempre dimostrati i più «ricettivi delle istanze di mercato a livello europeo». Siamo così sicuri di volercene privare tutto d’un tratto, cancellando le popolari con un colpo di spugna?

Si è detto e si è scritto che nei consigli di amministrazione delle popolari ci sarebbero «intrecci pericolosi da tagliare» (Corriere della Sera) e che questo modello, «che certo ha avuto i suoi meriti, è degenerato in commercio di deleghe, connivenze sindacali, assemblee nei palasport con migliaia di soci trasportati in pullman, immobilismo decisionale e poltrone a vita» (Il Foglio). Una serie di colpe imputate alle popolari che culminerebbero con l’assoluta incapacità di autoriformare da sé la loro governance. Incapacità che durerebbe da anni. Per questo motivo, oltretutto, si giustificherebbe l’adozione dello strumento del decreto legge, impiegato soltanto «in casi eccezionali di necessità e urgenza». Ma le cose stanno proprio così?

Andrea Resti, docente del dipartimento di Finanza alla Bocconi, nonché membro del comitato che rappresenta banche, consumatori e lavoratori all’interno dell’Autorità bancaria europea, ha precisato ad Avvenire: «Non mi pare che ci fossero i motivi di necessità e urgenza che giustificano questo strumento legislativo. Del resto, stabilendo che le banche popolari hanno diciotto mesi di tempo per trasformarsi in società per azioni, è lo stesso governo a indicare che non c’è fretta». Opinione condivisa da suor Alessandra Smerilli, segretario del Comitato organizzatore delle Settimane Sociali della Cei, per cui «il fatto che questo decreto sia stato messo tra le disposizioni di urgenza, sicuramente mi fa riflettere». Certo è, chiosa Smerilli, che così facendo «queste banche non diventeranno più vicine alle piccole e medie imprese, ma si allontaneranno». Perché in Italia, «chi è vicino alle pmi e alle famiglie sono le banche territoriali». Punto.

Il biglietto da visita per Davos
Mentre il premier si accingeva a portare come biglietto da visita al gotha della finanza mondiale riunito a Davos la riforma delle popolari che aprirebbe la strada alle fusioni, scavalcando l’ostacolo del voto capitario, chi ha provato a “riflettere” sull’italica furbata è stata, sempre oltremanica, Reuters. Che ha scritto: «Matteo Renzi potrebbe prendere due piccioni con una fava: riuscirebbe a portare concorrenza all’interno del sistema bancario», ma questo resta da vedere, «e ad affrontare l’annosa questione di cosa fare della Banca Monte dei Paschi di Siena». Quell’istituto che, fa notare Reuters, deve «raccogliere fino a 2,5 miliardi di risorse fresche dopo aver fallito gli stress test europei». Per dovere di cronaca: gli stress test le popolari li hanno superati eccome.

Anche Salvatore Bragantini, consulente di Borsa italiana, ha firmato un’editoriale sul Corriere della Sera in cui, spiegando «le ragioni di una svolta» a suo avviso «necessaria», dà per certo che la ragione che ha spinto il governo a scrivere il decreto sia stata «la necessità di ristrutturazione delle banche italiane uscite male dagli esami Bce». Per Mps e Carige, infatti, «si parla di aumenti di capitale o fusioni coinvolgenti banche popolari. Operazioni essenziali per la stabilità e gradite agli investitori, ma che potrebbero soccombere al voto capitario». Così si spiegherebbe, secondo autorevoli firme economiche, l’urgenza della riforma. Altro che dare soldi a Pmi e famiglie. Complottismo? Secondo Resti «non è un’idea inverosimile». Intanto le banche popolari unite si schierano sul piede di guerra: con una nota, Assopopolari ha fatto sapere che ritiene il decreto «ingiustificato e ingiustificabile, perché gravido di conseguenze negative su risparmio nazionale e su credito, famiglie e piccole e medie imprese». Qualcosa contro cui le popolari hanno promesso battaglia, a partire dai primissimi passaggi in aula. In attesa che sia redatta la loro controproposta affidata al trio di professori Alberto Quadrio Curzio, Angelo Tantazzi e Piergaetano Marchetti.

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