Il bimbo autistico abbandonato e il caso serio dell’amicizia

Indignarsi per i genitori che hanno rifiutato il figlio disabile censura il nocciolo della questione: «Occorre non essere soli». L'appello della Mongolfiera

«O sono disgraziati o sono disperati. In ogni caso abbiamo fallito. Le istituzioni hanno fallito, la società ha fallito»: con queste parole gli operatori di Casa San Sebastiano avevano deciso di rendere pubblico il contenuto di una telefonata ricevuta a luglio. «Dobbiamo trovare una sistemazione per un bimbo di 11 anni con diagnosi di autismo – avevano spiegato gli assistenti sociali veneti al centro specializzato di Trento -. La famiglia non lo vuole più». Per giorni specialisti e commentatori avevano curato il caso del ragazzino abbandonato dai genitori applicandovi il cerotto dell’indignazione, denunciando l’inerzia dello Stato, la carenza dei servizi, le difficoltà economiche della famiglia, la perdita dei valori. E come sempre accade, una volta innescata la gara della solidarietà per accogliere il ragazzino, il caso sembrava chiuso per tutti. O quasi.

LA CENSURA DEL NOCCIOLO

Davide De Santis e i suoi amici ci avevano pensato tutta l’estate. Al ragazzino e ai suoi genitori. Alla mancanza di un senso dato alla fatica di quella madre e di quel padre pesato fatalmente sul destino del ragazzo. Chi di loro non aveva fatto a cazzotti con la fatica, il dolore, la tentazione dieci, cento, mille volte al giorno di dire “basta non ce la faccio più”? A trattenerli nella fedeltà al destino dei loro figli non era stata stata però la forza impersonale di Stato, soldi e servizi. Li avevano aiutati, certo, ma il nocciolo della questione, enorme, che operatori e opinionisti lasciavano brancolare all’ombra di un generico civismo, era un’altra: «Occorre non essere soli».

LA COMBRICCOLA DELLA MONGOLFIERA

I lettori di Tempi conoscono già la storia di De Santis, oggi presidente de La Mongolfiera onlus, della nascita di una bambina che ha messo tutto sottosopra, di una combriccola di amici che intruppandosi al seguito della più cruda e imbarazzante delle domande – «perché è capitato proprio a mia figlia?» – hanno dato vita a una delle più belle, conosciute e vivaci opere di accoglienza e aiuto alle famiglie con figli disabili. Ecco, La Mongolfiera onlus è nata così, da madri e padri disarmati eppure certi di una sponda umana, certi che il destino di ogni figlio tra le braccia non sarebbe dipeso dalla loro capacità di sopportare stoicamente responsabilità, burocrazia, inefficienza del servizio pubblico. 

GRIGLIARE, UNA REGOLA BENEDETTINA

De Santis – che proprio non riesce a raccontare un’amicizia con i numeri – spiega a tempi.it che la Mongolfiera funziona grazie sì a un bando pubblico che mette a disposizione contributi per famiglie e associazioni (e siamo già a sette bandi annuali più di 300 interventi in famiglie con un figlio disabile, oltre 500 mila euro erogati per coprire spese aggiuntive ad hoc, dall’insegnante di sostegno a terapie come la logopedia, la fisioterapia, all’accesso ad attività sportive….). Ma soprattutto grazie a «grandi grigliate». La grigliata è alla Mongolfiera una regola quasi benedettina, «non offriamo servizi ma amicizia, ogni famiglia è seguita volontariamente da un’altra famiglia, ci si chiama ogni settimana, ci si vede almeno una volta al mese, ci si dà il cambio al capezzale di un figlio ospedalizzato, ci si cura di lui, delle attrezzature necessarie alla sua mobilità, salute ed educazione scolastica, e ci si cura dei suoi genitori, aiutandoli a mettere pane, bisogni e domande in tavola».

MADRI, PADRI, FIGLI, LO STESSO BISOGNO

Il senso è semplice: non è col bando, le risorse, i furgoni per il trasporto dei disabili gravi che ti risolvo il “problema” se poi ti lascio solo davanti al nocciolo della questione, la domanda cruda e imbarazzante di un senso – «perché proprio mio figlio, perché devo fare questa fatica». «Quando smetti di fare a pugni con una diagnosi di malattia o di disabilità ti arrendi al fatto che tutto ciò di cui ha bisogno tuo figlio è la stessa cosa di cui hai bisogno tu come madre e come padre: qualcuno che ti vuole bene. Non è grazie ai migliori professionisti sulla piazza che mia figlia ha affrontato volentieri le sedute di psicomotricità, ma grazie a quelli che l’hanno guardata come una bimba da amare così com’è, non come un numero. Funziona così per i bambini, funziona così per gli adulti: non servono solo competenze, servono grigliate. Altrimenti finisci disarcionato dalla fatica e dai budget. E salta tutto».

LA TRAPPOLA DELL’ASSISTENZIALISMO

L’Italia, racconta De Santis, dispone già di una buona legislazione in fatto di disabili, ma le norme non vengono applicate per mancanza di fondi; spesso le famiglie non sanno a chi rivolgersi per una disabilità specifica, spesso i servizi del territorio non possono venirle incontro per motivi burocratici e organizzativi. Dopo i 18 anni, poi, se non presentano un minimo di capacità lavorativa, di questi ragazzi non si occupa più nessuno. Morale, la famiglia lasciata sola finisce per vivere in funzione di un figlio e non con un figlio. E come fai a spiegare questa fatica? 

SIMONA E IL DESTINO DI ARIANNA

Quando l’11 settembre De Santis e la brigata della Mongolfiera sono stati a Roma per incontrare il Papa, non si erano dimenticati del ragazzino veneto e dei suoi genitori. Avevano partecipato poche settimane prima al Meeting di Rimini e all’incontro “Davanti al mistero del dolore innocente: non una spiegazione, ma una presenza”. Dove una di loro, Simona, mamma di Arianna, era riuscita a raccontare quanto fosse stata fertile per la sua famiglia la terra della sofferenza, quando più grande della sindrome di Angelman il destino di Arianna e di ciascun bambino malato, davanti al quale non restava che il compito, anzi, il commosso privilegio di una presenza: «Oggi siamo tornati felici. Forse più felici. Perché Arianna ci ha reso migliori». Non era nata per questo la Mongolfiera? Rendere vivibile una presenza, contagiosa un’amicizia, possibile una felicità «anche dietro al dolore, anche dentro al dolore»?

«NOI CI SIAMO, INCONTRIAMOCI»

«Per questo tornati dal Meeting e prima di partire per Roma abbiamo deciso di buttare giù una, come dire, “pillola” – spiega De Santis – per dire che la famiglia del bambino veneto ha tutta la nostra comprensione. Occorre non essere soli. Occorre un’amicizia che ti ricordi che la fatica non è inutile, non è senza senso. Altrimenti, lo sappiamo, salta tutto. E siccome noi non siamo gente da proclami o volantini, ma sappiamo solo “esserci” volevamo far sapere a questa mamma e questo papà, e all’ente che avrà in carico il bambino, che noi ci siamo, e saremmo davvero felici di poterli incontrare».

APPELLO PER UN’OPERA VIVENTE

La “pillola” (in allegato qui) dice molto altro. Dice di un metodo che non serba rancore e rassegnazione, bensì richiama alla freschezza, potenza e maestà di un inizio di persona, e perciò di popolo. Dice di un fermento generativo di cui è capace la famiglia, opera viva, vivente, tanto da sfondare le barriere burocratico-finanziarie: questo ai soloni di un generico civismo, ai legislatori e alle pubbliche amministrazioni dovrebbe dire davvero qualcosa di nuovo. Leggetela, diffondetela, fatela arrivare a destinazione. Perché non resti uno scritto ma un punto di paragone e un’offerta di amicizia vera. Finché verrà sostenuta la possibilità che queste realtà e famiglie crescano, possano essere incontrate da un numero sempre maggiore di famiglie, Stato, istituzioni e società non falliranno.

Exit mobile version