I tormenti di un vescovo. Vi racconto Martini (e Cl)

«La sua ricerca mossa dal dubbio lo portava sull’orlo di un precipizio». Parla don Gerolamo Castiglioni, il sacerdote che per quindici anni fu assistente di Comunione e liberazione in diocesi

«Era un uomo inquieto. La sua ricerca mossa dal dubbio lo portava in certi momenti sulla vertigine di un precipizio. Credo che, alla fine, abbia sofferto molto anche per questo». Così don Gerolamo Castiglioni (in foto con Martini), assistente ecclesiastico della Fraternità di Comunione e Liberazione in diocesi di Milano dal 1985 al 2000, ricorda il cardinale Carlo Maria Martini, con cui «ho collaborato per vent’anni e con cui ho avuto 23 udienze private». Mentre apre la porta dell’ufficio a Tempi Castiglioni incontra sulla soglia uno straniero con la mano aperta. Gli mette in mano i pochi euro che ha in tasca: «Il cardinal Martini ai poveri li dava sempre».

Oltre che di questo aspetto, tutti i media hanno parlato del cardinale Carlo Maria Martini come del portavoce di nuove istanze nella Chiesa. Una strumentalizzazione?

Quello che lo faceva pensare di più erano i problemi posti dalla modernità, voleva che fossero discussi dalla Chiesa. Il suo riferimento era la Bibbia, che conosceva a memoria. Ricordo, ad esempio, quando disse che nella Bibbia non c’era un divieto esplicito al sacerdozio femminile e che quindi se ne poteva parlare. Repubblica titolò: “Martini apre al sacerdozio femminile”. Ovvio che veniva strumentalizzato. Gli dissi che la stampa di sinistra gli dava ragione su tutto. Lui, che aveva un’ironia non indifferente, rispose: «Ah sì, don Gerolamo? Non mi ero accorto…». Voleva che la Chiesa discutesse di certi problemi e pensava non lo facesse per evitare lo scontro. Per questo auspicava un Concilio Vaticano III. La risposta da Roma fu chiara: bisognava riprendere in mano il catechismo. Lui dichiarò che era troppo voluminoso. Aveva ragione. Così fu fatto un compendio, come a ricordare che la verità si rivela in due modi da tenere sempre insieme: la Bibbia non può essere interpretata contrariamente al magistero. Detto questo, quando leggo gli ultimi scritti a sua firma non mi sembrano tutta farina del suo sacco.

Il magistero è considerato dalla Chiesa verità rivelata da Cristo tramite di essa. Perché allora tanti dubbi?

Per Martini la parola di Dio era centrale. In questo senso ha avuto il grande merito di insistere sulla conoscenza della Bibbia, che molti cristiani non leggono più. Mi ricordo che diceva che bisognava essere come Maria, e non agitarsi come Marta. Bisognava contemplare Cristo e mettere in pratica i dieci comandamenti. Questo richiamo è sacrosanto, ma deve sempre avere come riferimento il magistero e la persona vivente di Cristo, nuova origine dell’etica. Altrimenti ci si perde, interpretando o riducendo il cristianesimo a uno sforzo umano.

Al centro dei discorsi del cardinale Martini c’era la “parola”. 

Il suo metodo era la sequela alla parola di Cristo da declinare nella vita personale. Don Luigi Giussani parlava dell’avvenimento di Dio fatto uomo, presente nel segno della vita comunionale che genera una presenza missionaria. Il cardinale era colpito da questa continua sottolineatura.

Nonostante ciò in quegli anni di collaborazione non sono mancate polemiche. 

Sarebbe falso dire che si è arrivati a un’unità visibile. Ma tutti siamo stati accolti dal cardinale. Il coordinamento fra le varie realtà ecclesiali non era però direttamente gestito dal cardinal Martini. Ascoltava i nostri interventi, ma purtroppo i lavori procedevano senza di lui. Spesso valorizzava chi indicava come unico punto d’unione il battesimo, ossia l’appartenenza a Cristo nella Chiesa. Ma quando se ne andava lui si finiva spesso per porre l’accento sul fare: si pensava di unire i movimenti e le associazioni partendo dal proporre iniziative comuni, anziché educare al riconoscimento dell’unico punto reale di unità, che è il battesimo appunto. Per questo motivo, nonostante l’obbedienza al vescovo, a volte si faceva fatica a incontrarsi e ci si concentrava più sulle differenze che sull’origine comune che tiene unito tutto il popolo cristiano.

Molti sostengono che Martini non stimasse don Luigi Giussani.

Non è così. Ricordo quando disse a un raduno di suore che don Giussani era un santo. O quando contro il rischio della solitudine dei preti citava realtà come lo Studium Christi, un gruppo di sacerdoti del movimento a cui lui fece anche visita. Stimava l’esperienza dei Memores Domini. Insomma, non lo sentii mai criticare don Giussani, anche se non capiva certe opere o le comunità d’ambiente. Ne vedeva i rischi. Come quello di un’assenza di contemplazione di Cristo nelle comunità o come l’ignoranza delle scritture. Ma, senza negare gli errori che ogni cristiano fa, spesso si preoccupava anche perché gli sbagli venivano davanti a lui amplificati se non travisati.

Erano rischi reali?

Questi ci sono sempre: il cardinale ci ricordava che se nell’amicizia cristiana non si prega insieme, non si riconosce Cristo presente e non si segue l’autorità, questa diventa una compagnia mondana. Il rischio opposto è di un Cristo senza Chiesa. Anche don Luigi Giussani sapeva di questi pericoli opposti su cui vigilava richiamandoli insieme.

Il cardinale aveva una grande tensione alla pace. Per questo ha sempre ricercato il dialogo ecumenico. Spesso, però, si sente dire che pur di dialogare con tutte le altre religioni rinunciava a parlare di Cristo.

Non è così. Solo che, anche giustamente, non ne parlava subito: cominciava valorizzando i vari tentativi fatti da ogni religione per trovare un punto di incontro, infine introduceva l’ipotesi della rivelazione. Ma non ne sottolineava troppo la pretesa. Ossia il fatto che Cristo ha detto: io sono la risposta, «io sono la via, la verità e la vita». Questo perché il suo dialogo, più che la missione, aveva come fine la concordia. Motivo per cui spesso è passato il messaggio che tutte le religioni sono uguali. Mentre la Chiesa indica il dialogo come strumento dell’annuncio cristiano.

Il cardinale Martini ha sempre avuto a cuore gli ultimi. 

Lui, di temperamento timido e dalla fama di intellettuale poco paterno, era capace di gesti totali nei confronti dei bisognosi. Spesso andava da qualche famiglia povera a mangiare. Alla fine puliva i piatti e lasciava una busta per pagare la cena. Lo faceva di nascosto, senza vantarsene. Non riuscì mai a farne a meno, nonostante i tanti impegni di un vescovo. Come tormentato dal non riuscire a fare abbastanza per i più poveri. Anche questo faceva parte di quell’inquietudine che lo caratterizzava e a cui cercava sempre una risposta.

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