Ho avuto un arresto respiratorio. Ma poi sono “resuscitata”

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Cari amici, ecco il racconto del mio arresto respiratorio.

Se il fatto non fosse così tragico, ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate, ma – vi assicuro – al momento dell’arresto, non c’era niente da ridere.

4 ottobre 2004, mattina. Mi alzano dal letto. Non respiravo più e mia sorella Immacolata, appena mi ha visto, si è precipitata a chiamare il 118. È stato in quel momento che mi ha visto protestare con tutto il fiato che avevo in gola (potete immaginare quanto, visto che ero praticamente in apnea). Ho fatto capire a Immacolata le mie irrevocabili intenzioni: prima mi lavate, mica posso andare sporca in ospedale.

Sembrava di essere in una scena dei ridolini. Mamma e Immacolata che mi lavavano alla velocità della luce e mi vestivano come fulmini e io che, poco ci mancava, le obbligassi a farmi la ceretta alle gambe (una signorina è una signorina, deve essere sempre in ordine, che vada all’ospedale o a una sfilata di bellezza non importa).

Comunque, tornando a noi: abbiamo chiamato il nostro amico Enzo, medico, che è arrivato in un battibaleno. Enzo entra in casa e dice: «E il 118? Perché non l’avete chiamato subito?». Immacolata per la seconda volta si è avvicinata al telefono ed io, per la seconda volta, le ho fatto capire di aspettare. Sorella mia, vuoi mandarmi all’ospedale senza avermi dato la colazione? Preparami prima il latte, che poi, lo sai, in ospedale mi lasciano senza mangiare. Voglio dire: se devo morire, almeno che accada a pancia piena.

Ora, voi potete immaginare quanto sia riuscita a gustarmi il latte con un arresto respiratorio in corso. In ogni caso, questo è quel che è accaduto e, terminata di mala grazia la mia colazione, ho acconsentito a essere trasportata in ospedale. Quando sono arrivati quelli del 118, si sono adirati che non li avessimo chiamati prima. Immacolata mi ha indicato: «Lo dica a lei, non lo dica a noi che vi volevamo avvisare tre ore fa». Giusto per agevolare le operazioni di trasporto, mi sono impuntata a non voler scendere in barella. Io, signori, da casa mia esco solo in carrozzina.

Così è cominciata l’odissea del trasporto sul nostro montascale – detto “il lumaca”, per la sua proverbiale rapidità – e di seguito tutte le operazioni per far entrare l’autoambulanza nel nostro giardino, con un giro che non vi dico. Intanto, mentre la vettura viaggiava a sirene spiegate verso l’ospedale e i medici della rianimazione venivano avvisati dell’urgenza, il colorito del mio volto passava dal blu Puffo al nero Calimero. Giunti in Rianimazione, continuavo a dimenarmi. Questo perché, coricata nel lettino, faticavo ancor più a respirare. Ma come facevo a farlo intendere ai medici e loro come potevano capirmi, poveretti? Mi muovevo come un’anguilla e facevo un tale fracasso che chissà se non hanno pensato: “Ma questa non la dobbiamo tenere qui in Rianimazione, questa la dobbiamo portare al manicomio”.

Alla fine, disperati, hanno chiamato Immacolata che ha fatto capire loro di tirami su, altrimenti ci avrei lasciato le penne. Assunta una posizione più congeniale ho iniziato a ragionare e a collaborare. Oddio, “a ragionare” è un’espressione esagerata. Ero più di là che di qua, e i medici hanno detto ai miei familiari che molto difficilmente ce l’avrei fatta. Chi? Io? Ma scherziamo? Mica posso mollare così. A me piace vivere, ragazzi.

Infatti fu allora che, da mezza morta, sono “resuscitata” e la mia è proprio la vita di chi continuamente è chiamato a ritornare a vivere, uscendo dal letargo di questa maledetta Sla che fa di tutto per addormentarci e sfiduciarci. La vita è bella, è dura, è tosta, amici. Ma, soprattutto, è nostra. Io non mi arrendo, ma ora mi sento di dovere dare un consiglio agli altri malati come me. Amici, fidatevi: se vi accade un arresto respiratorio, non aspettate di diventare blu Puffo perché dovete fare colazione. Il latte ce l’hanno anche in ospedale. Quello di Sassari, poi, è di ottima qualità.

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