La guerra tra Hamas e Israele è un punto di non ritorno

«Non siamo mai stati così vicini alla terza guerra mondiale combattuta sul campo. L'attacco di sabato è terrorismo, la risposta dovrà essere definitiva. Ma l'allarmismo sul jihad globale è prematuro». Intervista all'esperto Marco Lombardi

Macerie a Gaza dopo un bombardamento israeliano (foto Ansa)

«Per le conseguenze che potrebbe avere, questa guerra è molto più rischiosa di quella tra Russia e Ucraina: l’attacco di sabato scorso da parte di Hamas, e la risposta militare di Israele, sono un passo concreto verso una terza guerra mondiale, di fatto già in corso, combattuta in maniera tradizionale». È spietata l’analisi che fa a Tempi Marco Lombardi, professore ordinario di Sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore dove insegna, tra le altre cose, Cooperazione nelle aree di post conflict e Sicurezza e contrasto al terrorismo, e direttore del centro di ricerca ITSTIME (Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies). «Questo è lo stato delle cose al momento: quando le armi parlano si deve fare la guerra, e le armi hanno parlato».

«Dopo quel che è successo Hamas deve essere eliminato»

La situazione cambia di ora in ora, ma la volontà di Israele sembra chiara, dopo l’atroce attacco ai civili da parte del gruppo terroristico che controlla la Striscia di Gaza. «Io mi aspetto che Israele forzi quanto prima l’evacuazione dei civili da Gaza attraverso il varco egiziano – anche se l’Egitto al momento frena – e una volta abbassato il rischio di perdite collaterali, nella misura in cui riterranno “spendibili” gli ostaggi, entreranno. Sono tanti, più dei russi in Ucraina, circa 300 mila, per cui possono entrare con centinaia di squadre veloci con l’obiettivo di recuperare gli ostaggi e eliminare chiunque faccia resistenza. Dopo quello che è successo Hamas deve essere eliminato, bisogna ripensare Gaza con una nuova governance, dopo quest’ultimo salto qualitativo dei miliziani palestinesi non c’è più spazio per nuove trattative».

Le stesse modalità dello Stato islamico

L’operazione di sabato ha certificato una volta per tutte quello che si sa da anni ma che da tanti è stato negato troppo a lungo: Hamas è un gruppo terroristico. «Hamas sapeva che non avrebbe potuto presidiare il territorio “conquistato” con l’attacco del 7 ottobre», spiega Lombardi, «quindi la sua incursione era finalizzata a terrorizzare la popolazione: è entrata brutalmente, sparando ai civili. L’attacco al rave aveva la stessa modalità dell’attacco al Bataclan, per certi versi: stessi obiettivi, giovani che si divertono e ascoltano musica, stessa “performance”. Hamas è andata sul campo per fare vittime, non per conquistare terreno, e per portare a casa degli ostaggi, in modo da avere garanzie nel momento in cui Israele avrebbe risposto».

Lunedì i vertici di Hamas hanno fatto sapere che uccideranno un ostaggio per ogni attacco ai civili non dichiarato da parte di Israele, e pubblicherà video e foto. «Sono le stesse modalità con cui agisce lo Stato islamico. Se nelle sue origini Daesh si era ispirato ad Hamas, ora è Hamas che copia il modo operativo di Daesh. Questo non si discute più: il fatto che Hamas sia un gruppo terroristico non è viziato da una certa visione ideologica di chi lo dichiara tale. Hamas è un gruppo terrorista perché si comporta da gruppo terrorista. Questa è la novità importante di questo attacco, che influirà sulla risposta di Tel Aviv, legittimandola».

La paura per il jihad globale

Chiediamo a Lombardi se è vero, come si è letto su diversi media in questi giorni, che questo attacco potrebbe far ripartire il cosiddetto jihad globale, con nuovi attacchi terroristici anche in Occidente. «La paura per l’imitazione dei comportamenti c’è, come successe con lo Stato islamico, ma stiamo monitorando sulla rete diversi movimenti radicali che possono avere continguità o analogie con Hamas, dai jihadisti agli anarchici, dall’estrema sinistra all’estrema destra. C’è dibattito al loro interno, ma in questo momento, per ragioni diverse, pur schierandosi idealmente con Hamas non hanno preso nessuna decisione operativa».

C’è chi dice di prendere esempio, ma si discute su come, spiega il professore esperto di terrorismo. «Nel mondo jihadista ad esempio ci sono perplessità sul fatto che il supporto ad Hamas è sciita, mentre buona parte del terrorismo di matrice islamista è sunnita. Non a caso c’è il silenzio di Daesh e solo qualche titubante apertura da Al Qaeda». È un dibattito vivo ma ancora a livello basso, spiega Lombardi, e anche «i non jihadisti discutono, ci sono ad esempio frange di estrema destra che applaudono Hamas ma criticano il fatto che ce l’abbia anche con i bianchi occidentali».

«Monitorare la situazione, ma niente allarmismi»

Al momento non c’è pericolo di “contagio” in vista. «Teniamo conto che si imita un comportamento se si è in un contesto simile, e se quel comportamento è funzionale al raggiungimento del proprio obiettivo. Hamas controlla un territorio, ha delle frontiere, ha un nemico schierato. È una situazione molto particolare, e diversa da quella di altri terroristi che potrebbero avere interesse a imitare Hamas ma in uno scenario diverso. Banalmente, non è che in Occidente possono mettersi a entrare nelle case e prendere ostaggi».

Non che non ci sia nulla da temere, però. «Non possiamo escludere che riparta il jihad globale, ma ora non siamo su quella strada. Quello che può accadere adesso è quello che è successo in Egitto: strutture, interessi e cittadini ebrei sono target di potenziali attacchi, ma l’allerta immediata a innalzare la sicurezza attorno a questi obiettivi in Occidente veniva data ogni volta che ci sono stati scontri a Gaza».

Ma così come cambia la situazione sul campo, potrebbe cambiare anche a livello globale, avverte Lombardi: «Dobbiamo monitorare costantemente, perché quello che potrebbe mobilitare il jihad a livello globale è un richiamo alla vendetta a seguito di cosa farà Israele a Gaza. In quel caso il sentimento di vendetta supererebbe la mancanza di contesto, a quel punto si tratterebbe di dimostrare che nessuno può mettere i piedi in testa all’islam». Tutto questo dipende dalla violenza dell’intervento israeliano e dalla politica nel mondo musulmano che dovremo osservare con attenzione, proprio a partire dalla spaccatura tra sciiti e sunniti.

L’attacco inusuale e inaspettato di Hamas

La domanda di molti è come sia possibile che Israele, all’avanguardia nell’utilizzo di tecnologie per la difesa militare e dotata di uno dei migliori sistemi di intelligence al mondo, sia rimasta spiazzata dall’attacco di Hamas. «Un anno fa Hossein Salami, comandante in capo del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica in Iran, scrisse che i palestinesi erano pronti a fare guerra sul terreno. E la debolezza maggiore di Israele è proprio la guerra sul terreno. Quello che è successo sabato non è stato preparato in poco tempo, c’è stato un supporto importante dell’Iran e del Qatar, e qualche settimana fa l’Egitto aveva avvisato Israele su un possibile attacco».

Non si sono accorti delle manovre di Hamas? Non avevano abbastanza informazioni? È una possibilità, dice Lombardi, «ma ce n’è anche un’altra: l’intelligence non prende decisioni, fa da supporto a decisioni politiche che deve prendere il governo. Può essere che il governo abbia sottostimato la minaccia. Forse il governo israeliano pensava che Hamas avrebbe fatto come altre volte, un attacco facile da fermare con un’azione che addirittura avrebbe potuto rafforzare il governo in crisi di consensi. Non lo sappiamo, ci sarà tempo per capire meglio cosa è successo». Certo, «quello che è accaduto è inusuale», conclude Lombardi, «ed era inaspettato, una rottura con il passato: ma dopo questo attacco sarà impossibile parlare ancora con Hamas, mi aspetto che Israele entri e “sterilizzi” Gaza». Con le conseguenze drammatiche che potrebbero esserci.

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