La guerra a Gaza, i razzi di Hamas e l’Occidente che «non sa più con chi dialogare». Il racconto di un sacerdote italiano in Israele

Intervista a don Salvaterra, Beersheba: «Nella mia comunità non vedo odio verso i palestinesi. Tutti sanno che a Gaza si soffre di più e desiderano la pace»

«Quando partono i bombardamenti le sirene cominciano a suonare. Da quel momento hai un solo minuto per trovarti un rifugio». Sessanta secondi per cercare riparo e salvarti. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Comincia così il racconto di don Gioele Salvaterra, 33 anni, sacerdote fidei donum della diocesi di Bolzano-Bressanone, che da cinque anni abita a Beersheba, nel sud di Israele, a una quarantina di chilometri dalla Striscia di Gaza. A tempi.it il sacerdote racconta di essere appena rientrato da un campo estivo con i bambini di lingua ebraica della sua comunità. «Per loro è stato un periodo di riposo, un modo per tornare alla normalità, per smettere di sentire il suono delle bombe e delle sirene. Ma la preoccupazione per i genitori rimasti a casa era tanta, non erano sereni».

I MIEI BAMBINI NON ODIANO. Dopo soli 24 giorni dall’inizio del conflitto il conto dei morti palestinesi è arrivato a 1.422, superando già il totale dell’operazione Piombo fuso dell’inverno 2008/2009. Eppure, piega don Salvaterra, «nelle persone della mia comunità non vedo odio verso i palestinesi. Sanno che c’è sofferenza da entrambe le parti, anzi, si rendono conto che a Gaza si soffre di più. La loro unica speranza oggi è che torni la pace, che si possa ritornare al più presto a vivere normalmente, a camminare per strada senza l’incubo che all’improvviso le sirene incomincino a suonare. Solo da questo desiderio di pace si può ripartire per costruire una vita normale».

CHIUSI IN CASA. Dall’inizio delle ostilità la vita non è più la stessa. Don Gioele racconta che i bambini e gli anziani non escono più di casa. «Solo gli adulti lo fanno, per comprare cibo e acqua, e chi non può farlo viene aiutato da altre persone. C’è molta solidarietà. Le persone che incontro hanno bisogno di parlare, di sfogarsi, di raccontare delle corse nei rifugi, degli incubi ricorrenti. E io non posso far altro che ascoltare e dire loro che non sono soli, che le loro paure sono le mie. Che siamo insieme nella sofferenza e soltanto stando insieme nella preghiera potremo andare avanti, vivere giorno dopo giorno. Non posso fare altro, non ho altri strumenti, solo la preghiera e la mia compagnia».

L’OCCIDENTE È CAMBIATO. In questi cinque anni a Beersheba, il prete italiano ha visto tante cose cambiare: «Prima di tutto il Medio Oriente è cambiato. Ma anche l’Occidente: non è più in grado di comprendere quello che sta succedendo in questa parte di mondo. Dall’inizio delle “primavere arabe” a oggi non ha più capito con chi dialogare e in che modo. Ogni scelta che è stata presa si è dimostrata sbagliata e ha portato sofferenze in tutto il Medio Oriente».

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