Gigantesca Giulia di Barolo. Nobile e mondana ma «sempre vandeana», spese la fortuna di famiglia per gli ultimi

A 150 anni dalla morte, Torino ricorda la sua marchesa cattolicissima, colta e raffinata ma pronta a tutto per aiutare poveri e carcerati. Anche a minacciare Cavour

Dovrebbe piacere al piemontese papa Francesco, la piemontese Giulia di Barolo (1785-1864), che 150 fa fece sua l’opzione privilegiata per i poveri, gli ultimi, i diseredati, lei, così aristocratica, tradizionalista, conservatrice.

Juliette Colbert, sangue nobile che risale al famoso consigliere del re Sole, nasce vandeana e conosce il sangue della Rivoluzione: da piccina, vede tanti suoi parenti e l’amata nonna salire il patibolo, mentre la folla della piazza esulta feroce al rotolare di una nuova testa blasonata. «Ricordati che io sono e sarò sempre vandeana», intimerà al ministro Cavour troppo anticlericale, quel “petit terrible Camille” con cui aveva giocato da bambina a palle di neve, in una delle tante villeggiature per rampolli di buona famiglia tra l’uno e l’altro confine. I Colbert fuggono il massacro in Olanda, finché Napoleone riapre le porte alla nobiltà esule.

Juliette è bella, coltissima, raffinata, affascinante: a corte conosce e accetta l’uomo consigliatole dal padre e da Napoleone stesso, Carlo Tancredi Falletti di Barolo e si stabilisce nel suo sontuoso palazzo torinese, in una strada dal nome profetico: via delle Orfane.

Carlo non era un nobilotto qualsiasi, discendente da una delle famiglie più antiche d’Europa, imparentata nientemeno con quel Berengario che resse il sacro Romano Impero: cresciuto a Parigi, non disdegna le vigne delle colline di Langa che daranno il nome al vino più prezioso al mondo; non disdegna neppure le idee illuministe che davano aria all’austero e bigotto regno sabaudo; paggio, poi ciambellano di corte, si mostra umile e fiero della sua intelligenza, e il matrimonio combinato con la Colbert, così simile a lui per tempra, passioni e desideri, è secondo le favole da “vissero felici e contenti”. Mai del tutto, mai da soli.

Troppi poveri, mendicanti, oziosi e ammalati fanno parte del paesaggio, facile abituarcisi. Le autorità si preoccupano se rischiano di diventare pericolosi, di fomentare rivolte, e di tanto in tanto fanno retate e li sbattono in gattabuia. I coniugi Di Barolo ne salvano parecchi, spalancano il loro palazzo ai poveri: di giorno c’è la fila alla mensa allestita nell’androne, dove la marchesina smette i nastri di velluto e scende a servire la zuppa calda; di sera le stesse scale illuminate vedono salire nel salotto più ambito della città intellettuali e nobili per discutere di politica, di arte e letteratura. Qualche nome? In primis Silvio Pellico, accolto malconcio dopo gli anni della terribile prigionia allo Spielberg, che diventa bibliotecario e magister di casa; il “terribile” Cavour, Cesare Balbo, Alfieri, de Maistre, nunzi pontifici e ambasciatori di passaggio, e quell’Alphonse de Lamartine che infiammava con gli sguardi le gote della ragazza Juliette, così piena di vita, così fresca e così profonda, capace di ispirare un poeta romantico… ma sempre ferma e felice a fianco del suo Carlo, consigliere del re, che gli affida incarichi sempre più importanti, soprattutto nel campo della sanità e dell’istruzione, dimenticando volentieri i sospetti per la vicinanza alle idee giacobine che aveva posto la famiglia nelle liste nere dei sorvegliati dalla polizia.

A fianco delle forzate
Ma la beneficenza e gli sforzi di governo non bastano a Giulia: all’ultima processione del Corpus Domini, nelle strade del centro, sente un grido che vien fuori dalla terra: «Non la comunione, voglio, ma un piatto di minestra!». È un condannato alla galera, recluso sottoterra nel buio e nel sudiciume.

Le donne non fanno differenza. Le “forzate” sono prostitute, disperate per fame, più che assassine e ladre e Giulia chiede al re di poterle visitare. Di più, rompendo ogni consuetudine e buona maniera, chiede di poter insegnare loro a leggere e a scrivere. Per studiare il catechismo, in primis, per dar loro una dignità, soprattutto. Il re è stordito, non è possibile, non bisogna vedere, neppure lui vuol saperne. Giulia è forte e cocciuta. Prega, minaccia, ottiene.

Quando entra dalle forzate queste si ritirano sulla paglia umida e sporca, qualcuna la maledice, tenta di aggredirla. Ridotte a bestie, non sperano che di morire per uscire dall’Inferno. Giulia arriva con coperte e cuscini, file di servi ogni giorno portano abiti, pane, e laute mance per chiudere gli occhi alle guardie; e poi carta, matite, libri di preghiera. È Giulia stessa a insegnare l’alfabeto e l’Ave Maria. Pian piano le urla di rabbia diventano lacrime. Perché Giulia non si ferma un attimo, e a furia di insistere, ottiene dal re l’incarico di Sovrintendente alle carceri. Una donna, una nobile che fa trasferire nelle Torri palatine, più luminose e più salubri le detenute.

Non improvvisa, Giulia: ha visitato le prigioni modello dell’epoca, in Inghilterra e in Danimarca, ed è spalleggiata dal marito e dal Pellico, da congregazioni di suore e dalle amiche dame contagiate dalla marchesa indomabile. Fa commutare le pene in lavoro, accorcia i processi, trasforma le leggi, discutendone prima con le detenute stesse. Assicurata l’igiene, l’istruzione di base. Nascono case per le carcerate in libertà, il “refugium peccatorum” per le penitenti, dove imparare un mestiere e tornare “all’onor del mondo”. Perché Dio l’onore non l’ha mai scordato, Giulia lo sa.

«Bisogna farsi amare da esse, provando loro che le amiamo». Solo così capiranno che Dio le ama. Non è filantropia, è carità cristiana. E poi ci sono i loro figli: asili (i primi in Italia) e scuole. E per gli altri poveri, figli e parenti di gente onesta? Case di accoglienza, diremmo oggi: non gli orfanotrofi disumani del regio governo liberale, ma ambienti puliti e caldi, dove si aggirava Leonardo Murialdo. Passava per una benedizione o per aiutare il giovane don Bosco, o il beato Cottolengo: santi che cambiarono il volto di Torino e della Chiesa tutta di quel periodo. Non parlavano di diritti, non discettavano di ideali e di libertà in carbonari convivii, ma davano tutto, tempo, lavoro, soldi, cuore. Mentre i massoni innalzavano la Mole Antonelliana, nascevano Valdocco, gli Artigianelli, l’Ospedale del Cottolengo, e decine di istituti religiosi per ospitare gli ultimi, all’ombra del campanile di San Donato (disegnato dall’architetto e beato Faà di Bruno) che, ad onta degli sforzi comunali, restava la punta più alta della città.

Le botticelle più amate dal re
Giulia marcia a tappe forzate: c’è la peste che aumenta il lavoro, poi la morte di Carlo, spirato tra le sue braccia in un ostello di campagna: «In nome di colui che è finito come un pezzente, devo dedicarmi a tutti i miserabili: devo scontare i secolari privilegi degli avi, saldare i debiti che essi hanno contratto con gli sfruttati». Non era comunista. Era il 1838, Il Capitale sarebbe stato pubblicato dieci anni dopo. Perché Juliette continuava? «Una voce cara e indulgente mi incita! La voce di Gesù».

Ospedaletto per i bambini disabili, scuole professionali per ragazze operaie; laboratori di tessitura e ricamo, l’Opera Pia Barolo che portasse avanti i suoi compiti quando non ci sarebbe stata più, e la chiesa di Santa Giulia, nel quartiere popolare Vanchiglia, dove la marchesa riposa, per suo volere.

Aveva speso tutte le ricchezze di famiglia. Ma ne aveva accumulate di nuove, dedicandosi anche alla produzione del vino Barolo con tecniche innovatrici, e qui il birichino Cavour potè esserle utile, scontando in parte la sua scarsa frequentazione della Chiesa. «Marchesa, si dice un gran bene del vostro vino, pare rivaleggi coi blasonati di Francia e io non l’ho mai assaggiato», le disse una vota il re. Pochi giorni dopo una lunga fila di carri trasportava 325 botticelle dalla campagna a corte, una per ogni giorno dell’anno, esclusi i 40 della Quaresima, beninteso.

Nessuna leggenda: Giulia ha trovato il tempo per documentare tutto: opere, diletti, incomprensioni, sofferenze, amicizie. Il suo diario è una finestra insolita su un periodo storico che la retorica e la propaganda hanno fatto venire a noia, e di cui hanno cancellato le memorie scomode. Che i cattolici più rigorosi e pii non erano egoisti e corrotti, non trova posto nei libri di storia.

Il diario di Juliette, il suo epistolario, ci descrivono una figura da romanzo, una santa ma pure un’ideale eroina da film: immaginatela a passeggiare con un sospirante e adorante Lamartine che le promette amore eterno, «perché voi, Juliette, siete unica e grande, ditemi il vostro segreto»… Immaginatela guardare la sottile linea rossa sulle montagne, e rispondere con un sorriso «mon cher, avete letto troppe fumisterie romantiche, parlatemi della vostra nuova raccolta di versi, e poi andiamo insieme al vespro, è quasi l’ora».

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Il 18 gennaio si aprono a Torino le celebrazioni per il 150esimo anniversario dalla morte della serva di Dio Giulia di Barolo, la madre dei poveri. In un periodo in cui la Chiesa si rende sempre più consapevole del carisma e della missione delle donne, Juliette Colbert svetta nella storia e nella storia della cristianità con una personalità eccezionale, che solo l’allergia ai santi e la riservatezza della sabauda Torino, più europea che italiana, hanno fatto trascurare.

Nel salone d’onore da lei abitato, a Palazzo Barolo, parleranno della sua opera rivoluzionaria il vescovo (presto cardinale) Cesare Nosiglia, politici e giudici, perché il dramma delle carceri dovrebbe urgere oggi come allora, il cardinale Angelo Amato, prefetto delle cause dei santi (Juliette è serva di Dio, si attende un miracolo per la beatificazione. Ci saranno storici come i professori Giorgio Chiosso e Stefano Zamagni a leggere i perché di un coraggio dedito “alle periferie dell’esistenza”, e l’anziana suor Ave Tago, figlia di Gesù Buon Pastore, l’Ordine fondato dalla marchesa stessa, che ancora è unica custode di una mole impressionante e inedita di documenti e cimeli. E ci sarà un sacerdote che oggi, nella sua missione ad Asunción, testimonia ogni giorno che un altro mondo in questo mondo è possibile. È padre Aldo Trento, lo conosciamo bene.

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