Giachetti, un mese senza cibo «per salvare la faccia della politica»

Intervista al deputato del Pd, da un mese digiuno perché stufo dei continui rimandi sulla riforma elettorale. «Ma il Porcellum non dispiace a nessuno. Bisogna arrivare al doppio turno alla francese».

Da quasi un mese il deputato del Pd, Roberto Giachetti, applicando uno schema rigorosamente radical-pannelliano, manifesta il proprio disappunto attraverso lo sciopero della fame: un disappunto per una riforma elettorale che non decolla, «ultima possibilità di riscatto per salvare la faccia» di questa legislatura. «La politica non abdichi all’ultima possibilità che ha di riscattarsi».

Onorevole Giachetti, assodato che l’attuale sistema elettorale non le piace, perché manifestarlo con lo sciopero della fame? Cosa vuole ottenere?
Sostengo Mario Monti e per fortuna ha accettato l’incarico di premier in un momento particolamente delicato per il nostro Paese, ma rappresenta anche il fallimento della politica, di tutti gli schieramenti parlamentari negli ultimi 15 anni. Se il paese è arrivato a questo punto è perché la classe dirigente, di cui faccio parte, non è stata in grado di fare ciò che era necessario. È stato così appaltato a Monti l’onere di operare. Tolto questo peso, cosa è rimasto alla politica?

Oggi, più che di politica, si parla di antipolitica.
Tutti i problemi dell’antipolitica, degli stipendi dei parlamentari, dei costi, non si porrebbero se attuassimo delle riforme adeguate per tirare su il Paese. Non è un caso che Grillo ha la sua massima popolarità in questo momento particolare dove la politica è debole. Il motivo per cui sciopero risiede nel fatto che avevamo una possibilità di riscatto e su quella ci eravamo impegnati a fare qualcosa: con la riforma del finanziamento ai partiti abbiamo ridotto un po’ le sovvenzioni, ma non si può dire che sia stato fatto un cambiamento strutturale. Un altro punto in agenda riguardava l’abolizione delle province, realizzato dal Governo Monti, ma in modo molto discutibile. Possiamo proseguire con la riforma dei regolamenti parlamentari di cui si parla da mesi e purtroppo non è ancora stato fatto nulla. Per ultimo, ed è questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso, aggiungiamo l’impegno di tutte le forze politiche per modificare la legge Calderoli, il cosiddetto Porcellum, a seguito della bocciatura da parte della Corte Costituzionale del referendum sottoscritto da milioni di persone. Tutto ciò che la politica doveva fare non è stato compiuto. Rimane la legge elettorale per salvare almeno la faccia.

Ormai siamo ad agosto inoltrato, i tempi non sono divenuti un po’ stretti?
Le varie scadenze sono state procrastinate e siamo arrivati in zona Cesarini: ho trovato intollerabile il gioco di continuare a rimandare e per questo, date le mie radici radicali, ho deciso di fare lo sciopero della fame. È uno strumento di non rassegnazione con l’obiettivo di far uscire il dibattito dalle stanze segrete dei partiti.

L’impressione è che il Porcellum non lo voglia nessuno, ma che, nello stesso tempo, non dispiace a nessuno. È così?
Purtroppo bisogna registrare che agli establishment dei partiti, al netto dei vari conclami, l’attuale legge elettorale piace, o meglio non è dispiaciuta. Paradigmatico fu il comportamento di Casini. Al tempo dell’approvazione del Porcellum il leader dell’Udc era presidente della Camera e la discussione in aula si consumò in tre giorni a colpi di regolamento e di forzature di tutti i tipi. Sta di fatto che il Porcellum non è più figlio di nessuno.

Sul tema della legge elettorale è difficile trovare la quadra perché ogni forza politica tende a massimizzare i propri risultati: i partiti piccoli vogliono contare di più in Parlamento, mentre gli aggregati politici di riferimento tendono a sistemi che garantiscano una maggior governabilità. Vede un modello perfetto?
Non esiste il modello perfetto, ma ritengo che il doppio turno maggioritario alla francese sia uno dei sistemi migliori perché evita il problema delle preferenze. In un momento in cui la politica è così fragile, l’introduzione delle preferenze significherebbe mettere in campo un sistema devastante per le ragioni che già conosciamo e già abbiamo visto: la compravendita dei voti. Aggiungo che non apprezzo neppure il metodo  proporzionale. La soluzione francese mi sembra la più convincente.

Parlare del modello francese significa seguire la strada invocata dal Pdl sul semipresidenzialismo. Perché il Pd si è subito opposto?
Alfano disse in conferenza stampa che avrebbe accettato il doppio turno alla francese a patto che si avviasse l’iter per la riforma sul semipresidenzialismo e il mio partito reagì alzando gli scudi. In quell’occasione dissi che stavamo commettendo un errore: quando giochi a poker, per capire se l’altro sta bluffando non puoi ritirarti subito, ma devi continuare la partirta. Una buona parte del Pd è favorevole al semipresidenzialismo e quindi andava verificata la validità della proposta avanzata dal Pdl, con un nota bene: una riforma del genere non la si pone in essere con qualche emendamento. I tempi c’erano: bastava accettare la sfida di Berlusconi e affrontare un testo serio della riforma presidenziale.

Quindi, un’altra occasione persa?
L’abbinamento del semipresidenzialismo con il doppio turno sarebbe a mio giudizio la riforma ideale. Questo nostro modo di fare non ha fatto che metterci ancor di più nella melma generale che accusa il non fare.

Alcuni parlamentari sostengono che per concludere l’iter costituzionale bisognerebbe ricandidare pro tempore Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica
Il presidente Napolitano ha già smentito, non ci pensa per niente.

@giardser

Exit mobile version