Dopo aver rinunciato alla Russia, la Germania non può fare a meno della Cina

Perché Scholz è andato a Pechino? Berlino non può perdere il lucrativo mercato cinese, o la recessione prevista per il 2023 si trasformerebbe in una depressione a lungo termine. Gli Usa non ci stanno

Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, con il presidente cinese, Xi Jinping (foto Ansa)

Quello che sta andando in scena all’interno del governo tedesco e rimbalzando potentemente sui media è un gioco delle parti: apparentemente il mondo politico e industriale tedesco appare diviso fra il cancelliere Scholz e gli industriali come Martin Brudermüller patron della Basf che intendono consolidare i rapporti economici della Germania con la Cina da una parte, e gli alleati Verdi e liberali del governo che insieme a una parte minoritaria ma crescente del mondo industriale vorrebbero ridurli, per «non ripetere l’errore che abbiamo fatto con la Russia», come ha detto il ministro degli Esteri verde Annalena Baerbock (le stesse parole di Mario Draghi all’uscita del summit Ue sulla Cina del 21 ottobre) dall’altra.

Nella realtà, i tedeschi sanno benissimo che, dopo aver dovuto rinunciare all’economicamente conveniente gas russo, non possono fare a meno anche del lucrativo mercato cinese: la recessione congiunturale prevista per il 2023 si trasformerebbe in una depressione a lungo termine, il modello economico e industriale di successo sviluppato negli anni della Merkel collasserebbe, e ci vorrebbero decenni per metterne a punto uno nuovo.

La Cina è il primo partner commerciale della Germania

Da sei anni la Cina è il primo partner commerciale della Germania: il primo fornitore e il secondo sbocco delle merci tedesche dopo gli Stati Uniti. La Volkswagen vende il 40 per cento di tutte le auto che produce in Cina. Un milione di posti di lavoro in Germania dipende dall’export verso Pechino, mentre il 46 per cento delle imprese tedesche lavora con prodotti e materie importate dalla Cina. La differenza fra l’export tedesco verso gli Usa e quello verso la Cina è di 21 miliardi di dollari (144 miliardi di dollari contro 123 rispettivamente nel 2021), la differenza fra i due import è quasi del doppio: 86 miliardi di merci statunitensi importate contro 189 miliardi di dollari di merci cinesi.

Nel solo primo trimestre del 2022 le imprese tedesche hanno investito in Cina 10 miliardi di euro. La Basf da sola ha intenzione d investire 10 miliardi di euro da qui al 2030 perché, come dice il suo presidente Martin Brudermüller, in quell’anno la Cina rappresenterà il 50 per cento del mercato mondiale della chimica. La Siemens annuncia imprecisati massicci investimenti in base al piano “Marco Polo” per raddoppiare entro il 2025 le vendite fatte in Cina nel 2020.

Il viaggio di Scholz a Pechino

Per tutte queste ragioni Scholz è volato a Pechino venerdì 4 novembre, primo capo di governo occidentale ad incontrare Xi Jinping dopo la sua conferma a capo del Partito comunista cinese. Per queste ragioni ha insistito per l’approvazione della proposta di acquisto di un terminal del porto di Amburgo (città di cui è stato sindaco) da parte della società cinese Cosco, nonostante l’opposizione o i dubbi di sei ministri del suo governo. Alla fine l’affare si farà, anche se la quota di proprietà ceduta ai cinesi sarà del 25 per cento anziché il 35 per cento che chiedevano.

Il ministero degli Esteri, cioè la verde Annalena Baerbock, ha mantenuto la sua opposizione alla compravendita; nel maggio scorso già aveva deciso di non estendere l’assicurazione di Stato sugli investimenti della Volkswagen in Cina (quel genere di assicurazione sugli investimenti all’estero che in Italia è praticata dalla Sace) e di istituire un tetto al numero di investimenti tedeschi in Cina che godrebbero dell’assicurazione.

Tutti gesti – insieme all’intervista alla Süddeutsche Zeitung nella quale dichiarava che «non possiamo più permetterci di diventare esistenzialmente dipendenti da un Paese che non condivide i nostri valori. La completa dipendenza economica basata sul principio della speranza (nell’evoluzione del sistema politico altrui – ndt) ci lascia aperti al ricatto politico» – utili a fidelizzare la base elettorale che crede in una politica estera tedesca fondata sul rispetto dei diritti umani, ma che non preludono a una modifica dei rapporti fra le due economie e i due stati: le industrie tedesche continueranno a investire in Cina anche in assenza di assicurazione pubblica, e se ridimensioneranno i rapporti sarà per altre ragioni: le restrizioni legate alla politica zero Covid, la scarsa protezione della proprietà intellettuale, il favoritismo del governo cinese verso i produttori nazionali.

Gli Usa non vogliono la connessione Germania-Russia-Cina

Verdi, socialdemocratici, cristiano-democratici possono permettersi di invocare maggiore intransigenza nei rapporti della Germania con la Cina perché sanno che in ogni caso le grandi e meno grandi imprese tedesche continueranno ad avere scambi con la Cina, con grandi vantaggi per la Germania in termini di profitti e di posti di lavoro. La missione di Scholz in Cina, apparentemente guardata con sospetto a livello di Unione Europea, aveva in realtà il sostegno di Emmanuel Macron, che si è anzi lamentato di non essere stato associato al viaggio del cancelliere (vedi Le Monde del 4 novembre, p. 7).

Nella grancassa mediatica ostile alla politica del cancelliere si può intravedere la mano anglosassone, interessata al “decoupling” del sistema economico occidentale da quello cinese allo scopo di frenare la rincorsa della Cina all’egemonia mondiale e di tutelare la vigente egemonia Usa; e in particolare interessata al “decoupling” della Germania da Russia e Cina, essendo la connessione di questi tre soggetti la più grande minaccia all’egemonia statunitense che si possa immaginare. Scholz ha fatto notare che è un po’ strano l’accanimento contro la vendita di un quarto della proprietà di uno dei quattro terminal per container del porto di Amburgo alla Cosco, quando la stessa società cinese ha quote di proprietà dei terminal dei porti di Anversa, Rotterdam e Zeebrugge, per le quali nessuno aveva finora avanzato obiezioni.

Interdipendenza commerciale con la Cina a rischio

Il Financial Times informa, citando come fonte un sottosegretario dello stesso governo tedesco, che le imprese tedesche potrebbero presto avere problemi nei loro affari con la Cina perché «è piuttosto interessante vedere che le agenzie di rating americane stanno ora includendo una valutazione del rischio geopolitico. E potrebbe diventare molto costoso per le aziende europee rifinanziarsi se non si diversificano». E sempre citando una fonte tedesca che è il presidente delle Camere di Commercio Martin Wansleben fa sapere che alcune Pmi tedesche «affermano di essere escluse dalle gare internazionali se dichiarano che alcune parti delle loro produzioni provengono solo dalla Cina, dalle loro fabbriche in Cina».

Grosse cariche di esplosivo hanno messo fine probabilmente per sempre all’interdipendenza economica-energetica fra Germania e Russia; oneri finanziari e capitolati d’appalto potrebbero mettere fine all’interdipendenza commerciale con la Cina. La decisione tedesca di diventare una potenza militare in proprio (100 miliardi di euro di stanziamenti vanno al di là della partecipazione alla Nato in un ruolo subordinato) ha certamente fatto suonare gli allarmi a Washington. Gli avvertimenti fragorosi a Berlino si sono moltiplicati, e il tiro al bersaglio su Scholz che è andato a Pechino e le polemiche sull’affare del porto di Amburgo fanno parte di un unico spartito.

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