Il flop del trans Hubbard fa gioco allo storytelling olimpico dell’inclusione

L'atleta transgender fallisce a Tokyo e tutti esultano: perdendo nella categoria femminile ha affossato lo stereotipo del maschio forte e un'idea di sport obsoleta. «Ha scritto la storia». Ditelo alle donne

Laurel Hubbard, pesista transgender, è stata eliminata dai Giochi di Tokyo (foto Ansa)

A Tokyo c’è olimpo e olimpo, e il fiasco di Laurel Hubbard scrive una nuova pagina di quel compendio di coming out, epica degli infortuni, dei perdenti, degli uncinetti e della “vita difficile” che sono diventate le Olimpiadi dell’inclusione.

Dopo mesi di articolesse dedicate all’atleta neozelandese, il primo trans a competere alle Olimpiadi in una categoria femminile e così a “fare la storia”, ad “abbattere i pregiudizi”, mesi di discussioni e accuse di transfobia a chiunque osasse denunciare una competizione ad armi impari, Laurel Hubbard, nato Gavin Hubbard, è sceso ieri sulla pedana di Tokyo. E con i suoi 43 anni, quasi il doppio delle concorrenti nella categoria +87 kg del sollevamento pesi, non ha concluso la prova di strappo, fallendo tre alzate su tre, quella dei 120 chili, poi, per due volte, dei 125. E così, 25 minuti dopo avere iniziato a “scrivere la storia” (il titolo più usato dai corrispondenti da Tokyo e da chiunque avesse un account social), mimando un cuore, ha lasciato la competizione.

Se Hubbard perde riscrive la storia

Tanto rumore per nulla, scrive il Corriere, «ha provveduto proprio Laurel Hubbard, nata Gavin, a tacitare ogni possibile polemica sul suo risultato fallendo malamente la chance a cinque cerchi», ma «non se ne va via a mani vuote. Ha fatto riscrivere la storia – scusate se è poco – e la sua medaglia è lo scritto di Richard Budgett, capo dello staff medico del Cio: “È una donna e competerà secondo le regole della sua federazione. Noi dobbiamo rendere onore al suo coraggio e alla sua tenacia che l’hanno portata a qualificarsi per i Giochi olimpici”». Ma che c’entra il risultato, l’onore alla tenacia con un dibattito diventato impossibile sulle condizioni di partenza?

Sì, ha perso Hubbard, nettamente battuto da pesiste più giovani di lui, e perdendo ha per molti già segnato la vittoria del mantra “le donne trans sono donne”, “chi nasce maschio non è avvantaggiato”. Il mantra sposato dal Comitato Olimpico che nel 2015 ha stabilito che gli atleti uomini che diventano donne – come Gavin, che non aveva gareggiato a livello internazionale ma da quando è diventato Laurel, a 35 anni, e ha iniziato a gareggiare con le donne, ha conquistato medaglie, un argento e due ori fino a qualificarsi per i Giochi di Tokyo – possono competere nella categoria femminile a patto che i livelli di testosterone siano inferiori a 10 nanomoli per litro per almeno 12 mesi. Una politica che il Cio promette oggi alla Bbc di rivedere prendendo in considerazione «non solo le prospettive mediche, scientifiche e legali, ma anche quelle dei diritti umani».

Le donne protestano? Zittite le donne

Ditelo a Tracey Lambrechs, rinomata atleta nel sollevamento pesi femminile della Nuova Zelanda, costretta a lasciare il posto ad Hubbard cambiando categoria di peso (perdendo 18 chili in tre mesi) a cui la federazione impose di non protestare (Tempi vi aveva raccontato la sua storia qui: «Ci dissero che non dovevamo parlare ai media e ci avvertirono che se avessimo danneggiato la reputazione dello sport, avrebbero potuto buttarci fuori dalla nazionale o dalle selezioni»). Ditelo a Iuniarra Sipaia, sollevatrice samoana battuta da Hubbard nel 2017 che si era infuriata («Quando mi hanno detto che avrei gareggiato contro un uomo pensavo che stessero scherzando»), o all’australiana Deborah Acason («E allora che senso ha lo sport?»), o alla belga Anna Vanbellinghen, sbranata per avere definito la partecipazione di Hubbard a Tokyo «un brutto scherzo». Ditelo a Martina Navratilova, campionessa di tennis e icona lesbica accusata di “transfobia” per aver scritto sul Sunday Times che trovava “folle” che atleti transgender che avevano deciso di diventare donne festeggiassero traguardi che non avrebbero mai potuto raggiungere da uomini.

Ditelo insomma a chi lo sport lo pratica e non lo scrive dai comitati o dalle redazioni, come la sprinter Chelsea Mitchell, censurata da Usa Today per aver chiamato “corridori maschi” i concorrenti transgender Terry Miller e Andraya Yearwood che dal 2017 vincono tutto, togliendo alle ragazze del Connecticut borse di studio e opportunità. E ditelo alle oltre trentacinquemila persone che hanno firmato una petizione per chiedere al Cio di non permettere ad atleti nati maschi di soppiantare le donne nelle squadre sportive e appropriarsi dei loro record. Petizione cancellata dalla faccia del web, «contrassegnata come hate speech», incitamento all’odio, ha spiegato una portavoce di Defend Women’s Sport.

Il testosterone che alimenta gli stereotipi

Per settimane i giornalisti si sono scornati sul parametro del testosterone tirando la giacchetta allo scienziato di turno. Studi recenti attestano che chi ha vissuto la pubertà maschile conserva vantaggi significativi in termini di potenza e forza anche dopo aver assunto farmaci per sopprimere i livelli di testosterone. In particolare, nel sollevamento pesi i trans manterrebbero la maggior parte della loro innata forza e potenza (superiore del 30 per cento rispetto alle donne) anche dopo una soppressione del testosterone per 12 mesi, che porterebbe a una riduzione di massa magra, muscolatura e forza solo del 5 per cento. In altri termini, come ha ben sintetizzato il Guardian, «le donne trans mantengono un vantaggio atletico» anche dopo la transizione.

Affermazioni messe in discussione da diversi ricercatori ascoltati dal Cio: «Non sappiamo con certezza se le donne transgender siano più forti delle donne di genere cis. È possibile ma non è certo» sostiene Joanna Harper della Loughborough University a cui ha fatto eco James Barrett, capo medico presso la famigerata Gender Identity Clinic della Tavistock di Londra, «le persone partono dal presupposto che essere atlete trans donne conferisca un vantaggio. Non è ovvio che sia così». Poi ci sono gli intellettuali, come Cara Ocobock dell’università di Notre Dame secondo cui le regole olimpiche «perpetuano ideali femminili obsoleti e un’enfasi eccessiva sui poteri del testosterone. Questo alimenta stereotipi, incomprensioni e discriminazioni». Morale, Laurel Hubbard partecipa Giochi, il suo nome non è mai stato tra i favoriti al titolo tra gli addetti ai lavori ma in quello dei vincitori morali sì.

Coming out e uncinetto

«Questo è un momento incredibilmente significativo per la comunità trans, per la nostra rappresentazione nello sport e per tutte le persone trans e i bambini non binari che potranno vedere se stessi e sapere che lo sport è un posto per loro»: così il marciatore trans Chris Mosier plaudendo all’arrivo a Tokyo di Hubbard dopo tante discussioni che poggiano su «falsi miti, idee sbagliate e stereotipi sulla comunità trans». Ashley Abbott del Comitato Olimpico della Nuova Zelanda l’ha definita un «modello», “farà la storia”, “destinata a fare la storia”, “ha fatto la storia”.

La storia alle Olimpiadi dell’inclusione è un atleta in guerra col suo destino biologico che perde sulla pedana e i giornalisti applaudono perché ha smontato lo stereotipo del maschio forte. È una richiesta di concorrenza leale che viene bollata come “incitamento all’odio”. Sono i titoli sui 200 atleti appartenenti alla comunità Lgbtq, i coming out dell’arciera Lucilla Boari, della judoka Alice Bellandi, della vogatrice Katarzyna Zillmann, del nuotatore Markus Thormeyer, della fascia arcobaleno portata dalla capitana della nazionale tedesca di hockey. È l’asso dei tuffi Tom Daley che sugli spalti fa l’uncinetto e ha dedicato il suo oro alla comunità arcobaleno: «Ci sono più atleti dichiarati a Tokyo 2020 che in qualsiasi evento sportivo mondiale del passato. Da ragazzo mi sono sempre sentito inadatto. Spero che qualsiasi giovane Lgtb, là fuori, non si senta mai più solo».

Le Olimpiadi dello storytelling

Sono le odi alle divine Simone Biles e Naomi Osaka, ginnasta e tennista che hanno abbattuto lo stigma della salute mentale e sdoganato il “diritto di essere fragili”, è la riduzione della pallavolista Paola Egonu a cliché politicamente corretto, sono gli appelli allo ius soli sportivo e l’integrazione dopo l’incredibile impresa dell’italianissimo Marcell Jacobs, di cui non si era mai scritto nulla e di cui oggi si sa tutto della sua vita di riscatto e difficile rapporto col padre marine americano.

Alle Olimpiadi di Laurel Hubbard «i risultati non sono arrivati, ma non è questo che conta» scrive la Stampa riportando le parole con cui l’atleta con mano sul cuore ha ringraziato il Cio. «Il suo sì spiega al mondo cosa è l’olimpismo: inclusione». Da realizzarsi esclusivamente a colpi di storytelling, censura e accuse di transfobia.

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