Dove sta la notizia? Non tutto il giornalismo è show

Il giornalismo del cittadino qualunque che gira un video con il cellulare, può sostituire quello dei professionisti? Cosa c'è di nuovo nel trattare le tragedie come dei reality show? Due cronisti si mettono a caccia di risposte con un libro che non si arrende a ridurre ogni fatto di cronaca in un evento mediatico.

Il citizen journalism, fatto da un cittadino qualsiasi con i video girati sul telefonino, postati su Youtube, ripresi dai più grandi media, potrà sostituire la funzione sociale svolta dalla stampa tradizionale? I coriandoli di notizie che circolano sui social network bastano ad offrire un’informazione reale? Queste domande interessano, prima che il giornalista professionista, proprio il lettore che vuole comprendere il mondo che gli sta intorno. Su questi interrogativi, dà risposte frutto di un’indagine appassionata e accurata, Dove sta la notizia (ed. Lussografica-Centro Studi Cammarata; 146 pg; 14 euro), libro appena pubblicato dai giornalisti Giuseppe Di Fazio (La Sicilia) e Orazio Vecchio (Il Sole 24 ore, La Sicilia). Una lettura non per addetti ai lavori, ma ricca di spunti di riflessione.

Un esempio è il capitolo dedicato proprio al citizen journalism, che inizia tracciando il parallelo tra due storie simili di cronaca. La prima vede protagonista un cronista siciliano e la vicenda di un uomo scomparso e ritenuto morto nel 1961, per il cui delitto era stato condannato il fratello. Il cronista, seguendo il processo, si convinse che qualcosa non andava nella ricostruzione giudiziaria della vicenda, soprattutto dopo aver sentito la testimonianza di due contadini che assicuravano di aver visto lo scomparso ancora in vita. Il giornalista iniziò, quindi, una lunga inchiesta, andando in giro con la foto dell’uomo scomparso e ascoltando numerose persone. Finché non lo ritrovò l’uomo vivo: il fratello fu scarcerato, iniziò la revisione del processo.

Il secondo caso ha luogo a Londra nel 2007. Anche in questa storia c’è un uomo scomparso, che però riappare improvvisamente dopo cinque anni: era dato per morto, ora torna dalla moglie (che nel frattempo ha anche intascato un’ingente polizza assicurativa sulla vita del marito). Si incuriosisce una giovane mamma londinese, che trascorre le notti insonni su internet, fino a che non scopre su google una foto dei due coniugi, risalente a poco dopo la presunta morte dell’uomo: marito e moglie già allora si abbracciano sorridenti nell’ufficio di un’agente immobiliare di Panama. La scoperta della truffa diventa uno scoop mondiale. Qual è la differenza tra questi casi, in apparenza così simili?

Osservare con curiosità, andando anche oltre una versione precostituita, domandare e chiedere, questo lo possono fare tutti: e infatti lo scoop è anche quello della mamma. «Il giornalista ha avvertito però l’urgenza di riferire in una serie di articoli i fatti di cui è stato testimone, di raccontare i personaggi che ha incontrato e i sentimenti. Non solo riferisce gli avvenimenti come li ha ricostruiti con l’indagine, ma li seleziona e comunica le emozioni e la verità emersa»: la sfida che aspetta il cronista è cioè scattare una foto per conto del suo lettore, ma nel farlo, dare anche una personale “inquadratura” dei fatti.

Gli autori ripercorrono il caso di Avetrana, con le troupe televisive accampate di fronte al villino dei Misseri e Sabrina che chiede ai giornalisti «che share fate?» prima di rilasciare interviste. In questo caso, osservano gli autori, la curiosità per il fatto e la ricerca di una verità da “fotografare” si trasforma in una morbosità. L’attenzione del pubblico resta però costantemente alta e, come ci è spesso capitato di vedere attraverso i teleschermi, il giornalista gioca la sua parte nel circo mediatico, più attratto dal lisciare il pelo ai bassi istinti del pubblico che non dal restituire un immagine realistica e obiettiva della vicenda. Così facendo, però, prosegue il libro, si perde anche l’oggetto della notizia: l’orrore di un fatto, la violenza, entrano con così grande forza nelle cronache da diventare quasi “di routine”.

Con un’informazione del genere, il lettore/spettatore può dire di conoscere ciò che gli avviene intorno? Attraverso il confronto con tanti cronisti che si sono occupati della vicenda, gli autori cercano una risposta. «Di fronte al male – scrivono – così antico e potente, noi giornalisti avvertiamo quasi l’esigenza di esorcizzarlo, di dargli un nome e identificarlo in qualcosa fuori di noi. Abbiamo trascurato che la realtà contiene qualcosa che può sfuggire alla nostra pretesa di inquadramento e spiegazione. Dobbiamo imparare a lasciarci provocare da ciò che pretendiamo di raccontare e spiegare. Questo è il primo, irrinunciabile, passo. Tutto il resto viene dopo».

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