Don Federico dal Centrafrica. Te Deum laudamus per il presepe di Bangui

Cronache da un convento invaso da diecimila profughi di guerra. Con decine di bebé nati nella chiesa e in refettorio. «Gesù ha promesso cento figli a chi lascia tutto per Lui. Parlava seriamente»

Come da tradizione, anche nel 2014 l’ultimo numero del settimanale Tempi è interamente dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso firmati da diverse personalità del panorama sociale, culturale e civile italiano e non solo. Nella rivista che resterà in edicola per due settimane a partire dal 31 dicembre, troverete, tra gli altri, i contributi di Angelo Scola, Asia Bibi, Louis Raphaël I Sako, Fausto Bertinotti, Luigi Amicone, Renato Farina, Mattia Feltri, Fred Perri, Aldo Trento, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Alessandra Kustermann, Mario Tuti.

Pubblichiamo qui il “Te Deum” di Federico Trinchero che è stato fino allo scorso luglio priore del Carmel fondato nel 2006 a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Circa un anno fa la sua vita e quella dei suoi confratelli carmelitani scalzi è stata sconvolta dalle conseguenze della guerra civile che ha travolto il paese dopo il colpo di Stato del 24 marzo 2013: il convento è stato invaso da molte centinaia di persone in fuga dalle violenze delle milizie in conflitto, e i frati si sono visti costretti a trasformare la loro casa in un enorme campo profughi.

Il mattino del 5 dicembre 2013, mentre siamo ancora riuniti come ogni giorno per la celebrazione dell’Eucarestia, i nostri canti e le nostre preghiere s’intrecciano con gli spari provenienti dai quartieri vicini alla nostra chiesa. I nostri sguardi e i nostri pensieri s’incrociano smarriti, ma continuiamo a pregare. Ancora non siamo consapevoli che quegli spari sarebbero stati come il suono di una campana che avrebbe notevolmente cambiato le nostre giornate, la vita di un convento carmelitano qualunque, il nostro modo di guardare la realtà, di pregare per la pace e di vivere il Vangelo.

Secondo un recente rapporto dell’Onu, quel giorno nei quartieri di Bangui furono uccise cinquecento persone. Questa carneficina, che purtroppo durerà ancora molte settimane e si estenderà per l’intero paese, ha provocato un grande movimento di profughi che ha trovato rifugio nelle parrocchie e nei conventi. Al Carmel di Bangui, studentato teologico dei carmelitani del Centrafrica, arrivano in poche ore centinaia di persone, costrette ad abbandonare le loro abitazioni per salvarsi la vita. Molte di queste abitazioni saranno distrutte o incendiate. Le persone diventano in pochi giorni quasi tremila, poi diecimila… e poi abbiamo smesso di contarle. Pensavamo di ospitarle solo per qualche giorno, e invece molta di questa gente è ancora qui, ormai da più di un anno.

I nostri orari e le nostre attività quotidiane sono stati completamente scombussolati da questi ospiti inaspettati, ma mai sgraditi. Senza quasi accorgercene, siamo realmente diventati – come dice papa Francesco – un ospedale da campo. O meglio, siamo diventati come un grande presepe. La chiesa è diventata un dormitorio per i bambini, il refettorio si è trasformato in un piccolo ospedale (dove tante donne hanno dato alla luce i loro figli), la sala del capitolo è diventata la maternità, tutti i cortili si sono animati di un brulichio di gente allegra e disperata, i giardini si sono riempiti di tendoni, toilette e docce… Ora la situazione è decisamente più tranquilla e gestibile, ma non nascondiamo di avere un po’ di nostalgia di quei giorni così intensi su ogni fronte.

Considero tutta quest’avventura come una grande grazia che il Signore ha fatto alla nostra comunità. La gratitudine è davvero più grande della stanchezza. Ed è proprio vero che le cose più belle della nostra vita sono quelle che non prevediamo, che ci colgono impreparati e che ci obbligano ad affrontarle senza scampo. Non c’è tra noi un eroe; tutti ci siamo dati da fare per metterci al servizio di questa povera gente. Non abbiamo mai considerato questa nuova missione, così diversa rispetto al nostro stile di vita e così impegnativa dal punto di vista organizzativo, come in contraddizione alla nostra vita di frati carmelitani scalzi. Non capita tutti i giorni di avere Gesù in casa, così facilmente disponibile da servire, così in carne e ossa da essere come obbligati ad accoglierlo. Non potevamo permetterci di sprecare una tale occasione. Si dice che l’ospite è come il pesce e che dopo tre giorni già puzza; i profughi invece, anche dopo più di un anno, profumano ancora di Lui. A noi non sembra di aver fatto qualcosa di tanto straordinario. Abbiamo fatto il nostro dovere di cristiani e di religiosi. Abbiamo semplicemente avuto la fortuna di essere stati costretti a vivere il Vangelo. E non siamo gli unici ad averlo fatto: chiese, parrocchie, conventi e seminari dell’intero paese hanno vissuto la stessa esperienza.

Non c’è dubbio che il ricordo più bello di quei primi mesi è la nascita dei bambini nella nostra chiesa e nel nostro refettorio. Ne sono nati circa una trentina. La vita è davvero più forte della guerra. È stata un’esperienza unica che non dimenticheremo mai. Per chi come noi ha scelto di vivere nel celibato, la gioia è ancora più grande. Quando Gesù prometteva “cento figli” a chi lascia tutto per Lui, non usava una metafora, ma parlava seriamente.

La prima urgenza di una nazione distrutta
Da alcune settimane, almeno nella capitale, la situazione è più tranquilla. Nei quartieri si spara meno e quindi alcuni profughi sono potuti rientrare. Anche alcune scuole sono state riaperte. Nelle zone interne del paese la situazione è più complessa e non mancano gli scontri tra i gruppi di ribelli. In questo momento i nostri profughi sono circa quattromila. Da settembre è stata inaugurata una missione di pace Onu con 12 mila soldati: non è ancora del tutto operativa, ma già sta portando alcuni frutti. Di per sé nella seconda metà del 2015 sono previste le elezioni. Il paese, già molto povero prima della guerra, si trova comunque in una situazione drammatica, non soltanto economicamente. Lo scontro tra cristiani e musulmani, che prima convivevano tranquillamente, ha avvelenato gli animi. Ci vorranno anni per arrivare a una rinnovata coesione sociale tra le due confessioni.

Spesso mi si chiede qual è la cosa di cui ha più bisogno il Centrafrica in questo momento così difficile. Il Centrafrica ha bisogno di Gesù. Tutto il resto – scuole, ospedali, strade asfaltate, pozzi con l’acqua pulita e tante altre belle cose – sebbene estremamente necessario, è un palliativo e viene comunque dopo e di conseguenza. E non pensate che questa riposta sia una sorta di frase fatta che ogni missionario si senta come obbligato a dare a chi gli chiede la ragione del suo lavoro. Purtroppo è anche vero che noi per primi, come distratti dalle tante cose che si vorrebbero fare, rischiamo di dimenticare questa essenziale esigenza della nostra missione. Ma solo Gesù può aprire la strada a un vero sviluppo. Solo Gesù può insegnare e dare la forza del perdono e della riconciliazione. Solo Gesù libera dall’odio.

Il Carmel Bangui, in tutti questi mesi, non è stato che questo: un piccolo spazio di pace nel vortice della guerra.

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