Dislessia, esperto: «Usiamo la malattia per scaricare le responsabilità»

Intervista a Federico Bianchi di Castelbianco, esperto di problemi dell’apprendimento infantile: «Alle elementari al 20% dei bambini viene diagnosticata la dislessia, ma solo il 3% è davvero affetto dalla malattia. Genitori, educatori e insegnanti usano la dislessia per scaricare le proprie responsabilità»

Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell’Istituto di Ortofonologia (Ido) di Roma, lavora da quarant’anni sui problemi dell’apprendimento infantile. A Tempi.it descrive la situazione della dislessia in Italia: un fantasma che, spesso, si tira in ballo per «scaricarsi delle proprie responsabilità». Nella sua ultima conferenza, intitolata “La scuola dell’obbligo e i disturbi specifici dell’apprendimento”, ha rivelato i risultati dell’ultima ricerca dell’istituto, secondo i quali il 20 per cento circa dei bambini delle elementari in Italia soffre di dislessia.

È un numero altissimo.
«Sì, ma è un dato fittizio. Il 18-20 per cento dei bambini presenta alcune difficoltà scolastiche che fanno pensare alla dislessia, ma spesso non sono malati. Per questo, quando poi vengono sottoposti a una terapia che non serve a curare la vera patologia, si scatenano conseguenze dannose».

A quanto ammonta la percentuale di bambini affetti realmente da dislessia?
«Al 3 per cento. L’allarmismo generale ha amplificato di molto i dati reali. C’è un problema di natura tecnica: non si conoscono le origini scientifiche della dislessia. Molti pensano sia una conseguenza genetica, altri che derivi da una causa psichica. Personalmente, credo che la dislessia genetica colga solo un terzo dei bambini dislessici. Inoltre, si tende a etichettare tutti i bambini afflitti da disturbi dell’apprendimento come dislessici. Questo, oltre a falsare le statistiche, ha conseguenze gravi sul bambino “sano”».

Cioè?
«Quando si affigge a un bambino il marchio di “dislessico” gli vengono richiesti risultati inferiori alle sue reali potenzialità. Gli vengono dati strumenti compensativi-dispensativi, software particolari, compiti più semplici. Di conseguenza, il bambino si considera più “stupido” di quanto non sia in realtà. Questo causa molti scompensi affettivi, tra cui disturbi d’ansia cronici».

Quali sono le cause della dislessia?
«A mio parere, sorge anche a causa di alcuni elementi contestuali, non solo genetici. Ad esempio il cambiamento sociale, la diversa richiesta di carico di studio, le modalità di educazione. I cinque anni delle elementari, oltre a fornire qualche nozione basilare, devono istruire i bambini a leggere e a scrivere. Adesso, la richiesta si è fatta più stringente: dopo il primo quadrimestre del primo anno tutti devono compilare la lettera a Babbo Natale. La riduzione del tempo di apprendimento rischia di essere invalidante. Dei bambini che fanno la “primina”, circa il trenta per cento ha problemi scolastici e, di questi, la metà presenta la stessa sintomatologia dei dislessici. Ma non lo sono:  bisogna solo evitare l’anticipazione degli anni scolastici laddove non è utile. Chiediamo troppo ai nostri bambini».

Perché la dislessia viene diagnosticata così di frequente?
«Si è soliti usare la dislessia per scaricare le proprie responsabilità. I genitori, gli educatori e gli insegnanti non hanno alcuna colpa se i propri figli o i propri alunni sono dislessici. Così, anche il sistema scolastico può nascondere i propri errori di valutazione».

Quindi è la scuola che non funziona?
«No, al contrario. La scuola funziona, anche troppo. Si riduce il tempo d’apprendimento perché si attribuisce ai bambini una capacità intellettiva troppo alta. Insegniamo tutto subito, senza pazienza. Questo, da un lato, fa sì che alcuni bambini rendano molto. Altri, però, sono schiacciati da ritmi incalzanti. È opinione comune che un bambino di oggi sia più intelligente di un bambino di quarant’anni fa. Perché è più attivo, impara l’inglese, sa usare il computer, ecc. Ma è un paragone errato. Queste doti sono dovute a ragioni di contesto. Indicano che il bambino si adegua al tempo in cui vive, non che è più intelligente».

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