La croce, l’arma dei monaci del monastero di Mar Mattai

Il nostro inviato nel monastero più antico dell’Iraq. «Sono qui per obbedienza al mio vescovo, e qui resterò finché me lo chiedono i miei superiori, non abbiamo paura di Daesh»

DAL NOSTRO INVIATO IN KURDISTAN (IRAQ) – Guardare la guerra dalle balconate e dai piazzali del monastero di Mar Mattai è come guardare un film che resta fermo alla prima scena mentre scorre tutta la colonna sonora. Aggrappato da più di sedici secoli a un fianco del monte Maqlob (che i monaci ribattezzarono monte Alfaf, che significa “migliaia”, quando il loro numero toccò tale vertice), questo monastero è il più antico di tutto l’Iraq, essendo sorto alla fine del quarto secolo, ed è anche il più vicino di tutti alla linea del fronte con l’Isis. Quattro chilometri appena in linea d’aria. Ai piedi della montagna corre una strada lungo la quale sono collocati quattro villaggi e due posti di blocco. Di là dalla strada e dai villaggi si estendono ondulati campi coltivati, lussureggianti di verde sotto un cielo grigio di pioggia primaverile, che si spingono fin sotto a una lunga collina. Rocciosa, screziata di verde e di bianco, è tormentata a sinistra da una grande cava di marmo. In cima alla collina ci sono le postazioni peshmerga, e sull’altro versante, invisibili, Bakshika e Bartellah, due località cristiane occupate dall’Isis nell’estate 2014. Esplosioni di artiglieria e raffiche di mitragliatrice pesante rimbombano periodicamente nell’aria, e nel corso della mattinata almeno tre incursioni aeree fanno tremare le mura e i vetri del monastero. Anche quassù è partita la controffensiva per riconquistare Mosul, distante da qui 35 km. Si sente benissimo, si sente tutto, ma non si vede nulla, nemmeno una colonna di fumo.

«Un giornalista mi ha chiesto: “Come fate voi monaci a restare qui, non avete armi”. Gli ho risposto che eravamo armati anche noi. “Dove sono le vostre armi, non le ho viste”. “Eccone una”, gli ho detto mostrandogli la croce che porto al collo. Questa è l’arma dei cristiani. Ha scritto san Paolo che le tre cose più importanti per noi sono la fede, la speranza e la carità. Ma più grande di tutte è la carità, cioè l’amore». Rabban Youssif è il superiore siriaco ortodosso del monastero di Mar Mattai. Ascoltare le sue parole nel deserto di cortili interni e scalinate del monastero, dove ci sono solo sette monaci, una famiglia di sfollati e rari visitatori, col sottofondo di raffiche di mitraglia e di esplosioni in lontananza, sospinge in una dimensione surreale. Dalla quale non si esce guardandolo come qualcuno che si lascia trascinare dalla retorica, o peggio dall’ipocrisia: padre Youssif è anche lui un profugo, sfollato nel 2006 da Mosul coi genitori e due fratelli in uno dei villaggi che si vedono dall’alto del monastero, dopo che il primogenito dei fratelli era stato assassinato da una banda jihadista. Ragheed era un ingegnere elettronico, e fu ucciso come tanti altri cristiani di Mosul che da allora fino all’esodo nel 2014 furono assassinati o rapiti e rilasciati dietro ingenti riscatti solo perché erano persone in vista appartenenti alla minoranza cristiana.

Il monastero ha visto giorni migliori ma anche giorni molto peggiori di quelli odierni. È stato attaccato, razziato, incendiato e distrutto nel corso dei secoli da persiani, mongoli, tartari e ottomani, nonché da bande arabe e curde. Dieci anni fa, in un momento di grande tensione dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, il monastero si è ritrovato con due soli monaci. Rabban Youssif e gli altri monaci sono decisi a restare, ma senza nessun atteggiamento eroico, anzi facendo discorsi che non suonano tanto bene alle orecchie occidentali, né a quelle dei vescovi locali: «Sono qui per obbedienza al mio vescovo, e qui resterò finché me lo chiedono i miei superiori, non abbiamo paura di Daesh. Ma la verità la conoscete: i cristiani se ne stanno andando tutti, vent’anni fa erano quasi un milione e mezzo, adesso siamo rimasti 250 mila. All’estero, in America e in Australia, in Svezia e in Germania, ci sono comunità di decine di migliaia di cristiani orientali che hanno bisogno di monaci, sacerdoti e vescovi. A chi mi dice: “la missione che Dio ha affidato ai cristiani orientali è di continuare a testimoniare Cristo in questi paesi in guerra”, io rispondo: “No, nel Vangelo Cristo ha detto che se siamo respinti da un luogo, dobbiamo andarcene e trasferirci in un altro luogo. Il corpo di Cristo siamo noi, ovunque andiamo rendiamo presente Cristo”. Per riuscire a restare qui dovremmo cominciare a comportarci come fa l’Isis, e come fanno tanti altri qui da noi. Ma noi cristiani non siamo fatti per questo, non siamo fatti per la violenza e per fare scorrere il sangue». Padre Youssif non è mai uscito dall’Iraq, ha imparato l’inglese guardando le tivù straniere. Gli dico che in Occidente le comunità cristiane orientali rischiano di perdere la fede e l’identità culturale nel giro di una generazione, a causa del contesto secolarizzato e della posizione svantaggiata di una comunità di immigrati. Si mostra comprensivo verso l’obiezione, ma ribatte: «Comunque a quelli che mi chiedono se la Chiesa qui può garantire sicurezza per sé e la propria famiglia, recupero delle proprietà perdute e posti di lavoro dignitosi, sono costretto per onestà a rispondere di no. E allora come faccio a chiedergli di restare in nome di una testimonianza cristiana?».

San Matteo è ricordato come santo taumaturgo, perciò il monastero da sempre è frequentato da pellegrini in cerca di guarigione. Il monaco dell’Anatolia guarì la principessa Sarah dalla lebbra con l’acqua battesimale, condotto a lei dal fratello Behnam che aveva incontrato il santo obbedendo al messaggio di un angelo apparso in sogno. Il padre, di nome Sennacherib come tanti re persiani, fece uccidere i due figli perché si erano convertiti al cristianesimo, poi impazzì. Fu la volta della moglie e madre dei giovani martirizzati di cercare san Matteo e portarlo al capezzale di Sennacherib, che fu a sua volta guarito. Si convertì e aiutò i monaci a costruire il loro primo monastero. Quando una coppia afflitta da sterilità ottiene la grazia di un figlio, se è maschio viene chiamato Mattai, se è femmina viene chiamata Sarah.

Mentre Rabban Youssif illustra al visitatore la storia del monastero, si avvicina un giovanissimo peshmerga col suo kalashnikov a tracolla. Chiede di potersi fotografare con noi, mostra un braccio e una gamba scarnificati dalle ferite sofferte un anno prima in una battaglia nei pressi di Sinjar. Yadi ha appena vent’anni, è sposato e ha una figlia di diciotto mesi. Mostra con soddisfazione una foto della piccola che ha nel cellulare. La voce si rompe e diventa singhiozzante per l’emozione, o per uno stress psichico da trauma che nessuno ha mai curato: «Com’è bello, qui. Le cose cristiane mi appassionano. Quando mi mettono di guardia in luoghi come questo cerco sempre di fare conoscenza coi cristiani e di farmi fotografare con loro!».

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@RodolofoCasadei

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