La crisi del M5s è un altro sintomo della malattia del sistema politico italiano

A pezzi dopo la trattativa per il Quirinale, il Movimento fondato da Beppe Grillo è il campo di battaglia della guerra tra Conte e Di Maio. Ma i tempi della lotta al sistema sono un lontano ricordo

L’ex premier e attuale leader del M5s, Giuseppe Conte, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (foto Ansa)

Che il Movimento 5 stelle (M5s) fosse a pezzi lo si era capito da tempo, almeno dalla fine del governo Conte 2. Dapprima l’uscita di Alessandro Di Battista, con alcuni momenti di bombardamento dall’esterno dell’ex attivista-leader, e di Davide Casaleggio, figlio del guru-fondatore; a seguire la diaspora di chi ha seguito Gianluigi Paragone nel suo nuovo partito euroscettico e di chi si è accasato al gruppo misto; poi la “mancata benedizione” da parte di Beppe Grillo a Giuseppe Conte, buono per governare ma non per fare politica secondo il comico fondatore; l’inabissamento di Luigi Di Maio come frontman del Movimento, e le dimissioni di questo dall’organo di garanzia, e infine la sentenza del Tribunale di Napoli che depone Giuseppe Conte dalla testa del Movimento per irregolarità nelle procedure di voto adottate dal partito. Nel mezzo l’elezione del presidente della Repubblica che ha fatto emergere tutte le contraddizioni dei pentastellati.

Quirinale fatale per Conte

Il passo delle trattative per il Quirinale è stato fatale per Giuseppe Conte. L’ex premier, deciso a sbarrare il cammino di Draghi verso il Colle, si è ritrovato a condurre le negoziazioni con l’ex alleato leghista Salvini sul nome di Elisabetta Belloni, voltando le spalle agli attuali alleati del centrosinistra sia sul fronte dell’opzione Draghi che su quelle di Casini e Mattarella. La rielezione del capo dello Stato è stata una Waterloo per Conte, che ha provato a spezzare la coalizione del centrosinistra e ha fallito, disunito il proprio partito e dato una pessima dimostrazione di leadership politica.

Ben più sottile e abile è stato il gioco di Luigi Di Maio. Già prima della elezione del presidente della Repubblica, il ministro degli Esteri si era defilato dalla prima fila del Movimento e riciclato con maestria come esponente draghiano, ha voltato le spalle alle simpatie filo-cinesi del vecchio Movimento riscoprendosi atlantista, si è ingraziato le gerarchie diplomatiche, si è messo a disposizione del Premier prima e nella scia degli uomini di Mattarella, e in particolare del segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti, poi. Nel corso delle trattative per il rinnovo della presidenza si è mosso con circospezione e, al contrario di Conte, ha evitato proclami e conferenze stampa.

L’abile gioco di Di Maio

Di Maio ha sempre avuto due sole opzioni in mente: Draghi, anche con i voti dei suoi, oppure Mattarella bis per restare al suo posto alla Farnesina. Ma il pezzo forte del suo repertorio è arrivato con il siluramento della Belloni, proposta da Conte e Salvini con tiepido assenso di Letta, di concerto con Renzi, i centristi e Berlusconi. È in quel frangente che Di Maio ha spinto giù dal burrone l’incauto Conte che aveva improvvidamente dato per cosa fatta l’elezione al Colle del capo dei servizi segreti. Infine, il Ministro degli Esteri si è dimesso dalla carica che occupava nel partito.

Molti indizi fanno una prova e ci dicono che Di Maio non è più interessato al Movimento 5 stelle per come è oggi né a una convivenza pacifica con Conte. Le richieste di chiarimento del ministro a Conte suonano come un segnale di sfiducia definitiva. Gli stessi flebili appelli all’unità di Beppe Grillo, che oramai esiste solo come figura virtuale, sembrano destinati a incidere poco questa volta sulle sorti della creatura politica che ha creato.

Quale futuro per il M5s

Tutto questo porta a chiedersi quale sarà il futuro del Movimento che, è bene tenerlo a mente, oggi è ancora il partito più grande del Parlamento. Gli scenari possibili sono diversi, ma è evidente che i pentastellati sono diretti verso un inevitabile declino elettorale e politico. Il primo è che la decadenza di Conte per decisione giudiziaria porta a una rese dei conti nel Movimento 5 stelle. L’ex premier non riesce a vincere la guerra sotterranea con Di Maio e perde la leadership del Movimento, che viene commissariato dal Ministro degli Esteri. In questo caso Di Maio avrebbe un vantaggio, cioè il controllo sulle liste elettorali alle prossime elezioni, e un problema, ossia il rischio di bruciare la propria leadership accostata a una performance elettorale deludente.

Il secondo scenario è un Conte indebolito, ma che resiste alla testa del Movimento superando con una nuova procedura interna l’impasse giudiziario. In questo caso Conte salva il salvabile, può sperare di arrivare da leader alle elezioni e preservare una quota di fedelissimi nel prossimo Parlamento. Il rischio per l’ex premier è di essere etichettato come il leader della disfatta ed essere defenestrato un secondo dopo l’elezione.

L’ipotesi scissione

Il terzo scenario, più improbabile e forse fantasioso, è la scissione prima della fine della legislatura. Conte e Di Maio, con i rispettivi seguaci, si dividono. Di Maio vira verso il centro, mentre Conte resta una costola del Pd. Tuttavia, senza il cappello del Movimento, simbolo oramai noto agli elettori, è una soluzione molto rischiosa per entrambi sul piano elettorale. Da ultimo, ciò che è certo è che il Movimento 5 stelle – dopo aver governato con la Lega, con il Pd e poi nella maggioranza Draghi – è una mina vagante e ciò che ne resta lo sarà anche nella prossima legislatura.

Può schierarsi nel centrosinistra per fini elettorali, ma potrà poi muoversi alleandosi con tutti al governo a seconda delle convenienze oppure disperdersi in molti rivoli. Senza alcun programma, senza idee e senza avere più un messaggio politico. Un mero strumento di potere, una zattera per pochi sopravvissuti. Un altro sintomo della malattia, forse il più evidente, del sistema politico italiano. I tempi della lotta contro il sistema sono solo un ricordo.

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