Così per tanti cattolici la fede ha smesso di comunicare con la politica

Folla di militanti a un comizio della Democrazia cristiana (foto Ansa)

Terza parte della sintesi delle relazioni tenute durante il convegno “Per una scuola libera popolare e democratica”, tenutosi a Rimini nell’agosto del 1975 e promosso da Comunione e Liberazione. Le uscite precedenti della serie sono reperibili in questa pagina.

* * *

Nel prosieguo del suo intervento al convegno “Per una scuola libera popolare e democratica” Rocco Buttiglione esprime una forte critica della diffusa impostazione dualista, largamente condivisa a quel tempo fra i “cristiani per il socialismo” ma rinvenibile anche in organi ufficiali della realtà ecclesiale e nella storia stessa del Movimento cattolico, riguardo al rapporto fra fede e politica.

Leone XIII, le masse, il capitalismo

La sua analisi parte dalla Rerum Novarum di Leone XIII, considerata l’inizio della dottrina sociale moderna. Buttiglione evidenzia i limiti dell’analisi del capitalismo contenuti nel testo di Leone XIII, ma ne valorizza lo spirito e la vicinanza che dimostra alla coscienza delle masse popolari:

«Certamente, dal punto di vista della scienza economica, la Rerum Novarum è un capolavoro di ingenuità, ma essa ha, nel suo tempo e nei suoi stessi limiti, una profonda radice popolare. […] Se dunque è vero che l’enciclica non individua, per carenza di analisi, le linee di sviluppo lungo le quali il modo di produzione nascente si sarebbe avviato, resta vero tuttavia che, nel suo tempo, essa prende la difesa degli interessi della parte più grande delle masse popolari. La Chiesa […] riprende con forza la propria identità nel processo storico ed inizia a riflettere sulla sua partecipazione al processo di trasformazione sociale».

Buttiglione poi spiega il fallimento del corporativismo cattolico di Giuseppe Toniolo, che muove dalla giusta aspirazione di restaurare l’unità organica della società disarticolata dal capitalismo, ma che non è realistico:

«L’enorme aumento delle forze produttive nel corso dell’epoca borghese faceva in modo che gli istituti corporativi non potessero essere restaurati, senza rinunciare a sfruttare i progressi della scienza, della tecnica e dell’organizzazione del lavoro».

Le conseguenze del mito americano

Così, quando dopo la sanguinosa parentesi fascista, i cattolici si trovano per la prima volta nella storia a governare lo Stato italiano unitario, «non dispongono di una coerente teoria sociale che sia riproponibile per la ricostruzione del paese», e per evitare che esso cada nelle mani del Partito comunista sposano il modello americano di sviluppo economico e di rapporto fra fede e impegno politico:

«Il prezzo che si dovette pagare per questo fu altissimo. Nelle elezioni del 1948 la Dc sfiorò la maggioranza assoluta, ma per ottenere questo risultato dovette accettare i voti dell’apparato di potere giolittiano nel Meridione […]. In un momento in cui, anche fra i cattolici, non vi era né unità né compattezza intorno ad un modello di società, questo stato di cose portò facilmente al prevalere di una ipotesi di sviluppo di tipo neocapitalista. Il neocapitalismo batte il comunismo realizzando una società in cui il livello di vita delle classi lavoratrici è relativamente alto e l’economia nel suo insieme è controllata, o almeno largamente condizionata, dall’intervento pubblico. In esso, però, il meccanismo di sfruttamento resta inalterato e la divisione della vita, l’alienazione capitalistica, permangono in tutto il loro rigore. Se prima l’operaio vendeva il suo tempo di lavoro contro il salario, adesso è tutta la sua vita che, attraverso i meccanismi del consumo che integrano quelli della produzione, viene assoggettata ad una regolamentazione estranea».

«Anche Maritain, il maggiore pensatore cattolico di questo periodo, si lascia convincere dal mito americano. […] Mancò a Maritain ed ai cattolici in generale, la capacità di svolgere un’analisi che integrasse in sé il momento ideologico sovrastrutturale e la comprensione delle trasformazioni strutturali. Essi, dunque, non compresero l’esistenza, all’interno delle democrazie occidentali, di una linea di tendenza immanente a tutte le forme capitalistiche avanzate, che portava verso la progressiva perdita dei valori che i cattolici avevano in comune con la borghesia nel suo periodo ascendente».

Perdita inevitabile, poiché essi vengono staccati dal soggetto che li agisce, la comunità cristiana:

«Il pericolo, cui i valori cristiani sono sottoposti in una simile situazione, è quello della loro ideologizzazione: separati dal contesto vivo di una comunità che li ripropone e li verifica continuamente nella sua fede vissuta, essi si prestano facilmente ad assumere qualunque contenuto sia, anche vagamente, assimilabile a quello loro originario».

Insignificanza e perdita dell’identità

Si arriva così all’insignificanza dell’azione sociale e politica dei cattolici:

«Questa situazione porta all’estremo quello che è il limite tradizionale del Movimento cattolico: la separazione fra teoria e prassi. Abbiamo visto come la dottrina sociale della Chiesa sia stata insieme un’espressione di questa separazione ed un tentativo per superarla. Gramsci, valutandola, osserva esattamente che essa riflette sì i desideri delle masse popolari e ne condivide le aspirazioni, ma non riesce a delineare nessuna strategia praticabile per dare loro concreta attuazione. Essa resta programmatica e non è invece metodologica».

Da cui l’equivoco della politica come “mediazione”:

«La politica non media fra una teoria e una prassi, in cui la teoria giunge a realizzazione solo a prezzo di un inevitabile compromesso; ma è invece continua autoriflessione di una concreta comunità, che si interroga sulla propria vocazione storica e cerca di realizzarla. La mancanza di un rapporto corretto fra teoria e prassi si lega, dunque, ad una incomprensione del ruolo metodologico della comunità cristiana per la costituzione di un’azione nella società. Ciò che orienta il lavoro politico non può essere l’adesione ad alcuni ideali astratti, ma è necessariamente l’esperienza di una Chiesa concreta. Nella separazione fra teoria e prassi si riflette il moralismo di una Chiesa incerta sulla propria identità. Nella prassi i cattolici usualmente non hanno una autentica originalità e si limitano ad accodarsi all’ala progressista moderata o a quella conservatrice moderata dello schieramento politico del paese».

Se tutto si riduce a dottrina

La critica alla posizione cattolica allora prevalente e a quella dei cristiani di sinistra si fa incalzante:

«L’estensione massima della separazione fra teoria e prassi porta all’opposizione di un ambito della fede e di un ambito della politica assolutamente non comunicanti fra loro. Questa conseguenza è strutturalmente necessaria nella misura in cui anche precedentemente la fede era ridotta a dottrina. Dato che questa dottrina si è mostrata assolutamente incapace di affrontare il problema concreto che questa forma di realtà pone, è sufficiente una semplice generalizzazione per affermare che la fede non ha capacità di intervento sulle realtà storiche. La nostra contrarietà a quest’ultima affermazione non discende da una nostra maggior fiducia nella capacità di un armamentario teorico, come quello della tradizionale dottrina sociale cristiana rispetto ai problemi del presente, ma da una diversa concezione della fede, che non è semplicemente e prima di tutto dottrina, ma adesione ad un’esperienza concreta che, in quanto prassi sociale, genera continuamente la possibilità di una teoria».

«La posizione cattolica tradizionale, proprio per avere abbandonato la Chiesa come criterio ermeneutico e principio metodologico della riflessione, è giunta ad una forma di dualismo di cui i cattolici del dissenso hanno semplicemente tratto le conseguenze ultime. […] Il dualismo esplicito dei cristiani progressisti sorge insieme come proseguimento di quello implicito di gran parte del pensiero cattolico tradizionale e come soluzione delle antinomie che esso pone. […] La scelta dualista incontra, però, un limite difficilmente superabile nello specifico carattere totalizzante dell’esperienza politica contemporanea. Nel nostro tempo, cioè, si costituisce una scienza della società, che inizia con la pretesa di tutelare lo specifico del fenomeno sociale e di analizzarlo secondo le sue leggi immanenti, ma che finisce con l’inglobare come parti della scienza della società una serie di giudizi, sul fenomeno religioso come su quello morale».

L’ideologia immanente alle cose

I cristiani progressisti credono che sia possibile separare l’oggetto politica dal contesto in cui operano i soggetti portatori di identità (fra cui quella cristiana), e trattarlo scientificamente, ma il pensiero critico neo-marxista (la Scuola di Francoforte) denuncia l’errore di questa posizione, tipica della sociologia positivista:

«Gli oggetti della scienza sono in rapporto reale fra loro e costituiscono una totalità, un sistema. […] Solo elevando a coscienza la struttura totalitaria dell’esistente, comprendendola attraverso una forma dialettica di pensiero, è possibile pensare e progettare la liberazione, la rottura della totalità, la riscoperta del particolare e la conoscenza oggettiva. Il pensiero positivistico si limita a riflettere l’ideologia che è immanente alle cose, dimenticando che gli oggetti che esso descrive come realtà naturali con assolta imparzialità, sono in realtà prodotti da una storia e da una prassi sociale che li imbeve dei suoi contenuti ideologici. […] Questo tipo di contestazione coglie in contropiede il progressismo cattolico: pone l’esigenza dell’unità di forma e contenuto a cui esso tentava invece di sottrarsi».

(3. continua)

fondazione.europacivilta@outlook.it

Exit mobile version