Così Eni allaccia Congo e Mozambico al futuro

In Africa la compagnia non lavora solo all'estrazione di gas o petrolio, ma anche in progetti che migliorano le condizioni di vita nelle aree rurali. Dove persino l'elettricità è ancora un sogno

Il rapporto tra Eni e l’Africa è molto stretto, indissolvibile, e non solo dagli inizi della storia della compagnia petrolifera. Erano passati solo pochi mesi dalla nascita di Eni, quando i geologi di Agip vennero inviati da Enrico Mattei in Somalia per le prime ricerche, mentre appena un anno dopo lo stesso Mattei si recava anche in Egitto per allacciare i rapporti con l’allora neo primo ministro generale Nasser. Da allora moltissime cose sono cambiate, ma non lo stretto rapporto con il continente, che vede Eni come prima compagnia energetica internazionale per la produzione di idrocarburi (circa 1 milione di barili al giorno). Eni ha proseguito il suo lavoro di ricerca e sviluppo nei decenni, arrivando a coglierne frutti significativi per l’Africa stessa. In Mozambico, nel complesso di Mamba-Coral, la compagnia ha ad esempio fatto la più grande scoperta mai effettuata e stima di ottenere 2.400 miliardi di metri cubi di gas, cioè più di 30 volte la domanda italiana. Tale rapporto è significativo anche per i paesi africani in cui Eni lavora e dove svolge numerosi progetti per le comunità locale: non a caso la società è Official partner for sustinaibility initiatives in African countries di EXPO 2015. Una delle più interessanti di queste iniziative riguarda il Congo e riguarda progetto stufe migliorate utilizzate per cucinare con tecnologie moderne in modo da fornire un accesso minimo all’elettricità alle unità abitative in contesti rurali e creare opportunità per lo sviluppo della microimprenditoria locale. Il progetto, che vede la collaborazione di Eni con il Politecnico di Milano, è stato presentato nel sito espositivo, a Casa Corriere, tra gli altri da Carlo Vito Russo, executive vice president della direzione Central and South Europe Region di Eni, da Fabio Inzoli, direttore del dipartimento Energia del Politecnico di Milano e da Giampiero Silvestri, segretario generale della Fondazione Avsi.

STUDIARE SENZA ENERGIA. Il paradosso di un continente ricchissimo di risorse energetiche è la totale carenza di infrastrutture, allacciamenti e connessioni che consentano l’adeguato sfruttamento e uso di tali materie prime. A raccontare i risvolti pratici, quotidiani, di questo paradosso è stato durante l’incontro in Expo Jerome Ndam Mungwe. Oggi Mungwe è docente presso l’Università cattolica del Camerun e sta conseguendo il phd al politecnico di Milano: «Vengo da un villaggio nel nord ovest del Camerun, dove sono nato circa 40 anni fa. A cinque anni sono andato alle elementari. Per raggiungere la scuola, dovevo percorrere ogni giorno 15 chilometri a piedi andata e ritorno. Ma non era finita. Quando rincasavo, dovevo poi andare a tre chilometri per raggiungere mia mamma, che lavorava nei campi, e aiutarla a trasportare il cibo e la legna per la cena. Quando finalmente rientravamo, intorno alle sei, spesso la giornata non era ancora finita e dovevamo raggiungere un fiume vicino, per prendere l’acqua. Vivevamo in una casa di tre stanze, una era quella dove si cucinava e dove c’era un po’ di luce, così io e i miei fratelli dopo tutti questi giri facevamo i compiti lì a fine giornata. È stato difficile studiare, ma sono stato abbastanza fortunato e avendo uno zio che viveva in una città che mi ha permesso di proseguire gli studi sino all’università». Oggi Mungwe, anche memore della propria esperienza personale, ha focalizzato la propria formazione e l’insegnamento proprio sulle fonti energetiche, in particolare quelle rinnovabili. Si stima che il 70 per cento delle popolazioni rurali avranno per la prima volta un accesso all’elettricità solo da qui al 2040, quando comunque ancora 650 milioni di persone continueranno a usare la legna o la carbonella per riscaldarsi e cucinare. Il paradosso della mancanza di collegamenti elettrici crea danni ingenti anche all’economia: nei paesi africani si realizza la maggior parte dello spreco “a monte” nei cicli produttivi, perché dopo i raccolti non esiste la possibilità di stoccaggio dei prodotti in celle frigorifere; né esistono strade o mezzi su cui farle viaggiare velocemente prima che si deteriorino.

DAL FUOCO ALLE STUFE. Il direttore del dipartimento Energia del Politecnico, Inzola, ha raccontato concretamente il progetto avviato in Congo, quello delle stufe migliorate: «In vaste aree dell’Africa la modalità di cottura principalmente usata per i cibi consiste essenzialmente nel poggiare dei pentolini sulla legna e su tre pietre». Un sistema rudimentale, che «non solo produce inquinamento, ma soprattutto seri problemi per la salute e incidenti. Vorremmo portare queste famiglie verso sistemi di cottura più efficienti, anzitutto, che consentano anche di liberare risorse. Un esempio a cui abbiamo pensato è una stufa che consente di cucinare, ma anche di connettere i cellulari per ricaricarli». Un’esigenza, quest’ultima, non casuale: nel continente i telefonini sono diffusissimi ad ogni livello della popolazione. «Abbiamo scelto – prosegue Inzola – un sistema che usasse meno legna per cuocere, dato che questa viene di solito raccolta da donne e bambini, che non possono perciò andare a scuola. Abbiamo messo a punto una soluzione sostenibile ed efficiente a livello energetico ma soprattutto producibile direttamente in questi luoghi». Le stufe migliorate non rivoluzionano le abitudini alimentari comuni ai villaggi rurali africani, ma sono anche «Un passo avanti che in prospettiva può portare allo sviluppo di un’imprenditoria artigianale, dato che sono fatte con materie prime a disposizione di tutti».

ANCHE NEGLI SLUMS. Silvestri di Avsi ha raccontato come anche la Fondazione è direttamente coinvolta nel progetto delle stufe migliorate anche in due slums nella periferia della capitale del Mozambico, Maputo: «Stiamo distribuendo queste stufe migliorate alle 35mila persone che vivono in questi slum, con un reddito familiare al mese di circa 250 dollari. Le stufe migliorate fanno meno fumo all’interno delle “case”, riducono le emissioni di anidride carbonica e la probabilità di incidenti, e consentono anche di risparmiare il ridotto budget domestico, perché usano piccole quantità di carbone vegetale. Le stufe vengono vendute ad un prezzo inferiore del valore commerciale». Silvestri sottolinea che «Abbiamo scelto di venderle perché è una cosa fattibile, dato che costano 23 dollari, e perché abbiamo voluto favorire l’imprenditoria locale, con la creazione di una microcooperativa che si dedica alla distribuzione di questo prodotto».

LA FILOSOFIA DI ENI. Le stufe stanno ora per arrivare anche in Congo, presso le comunità locali residenti nelle aree limitrofe agli impianti operativi di M’Boundi, dove Eni interviene già con il progetto di sviluppo locale Projet Intégré Hinda (PIH) per migliorare le condizioni di vita di circa 25mila persone. Il progetto integrato “Hinda” ha infatti già visto la realizzazione di tre centri per la salute, un programma di vaccinazioni che ha coinvolto 17.871 persone, tra cui più di 13.500 bambini, la costruzione di 9 scuole in 4 delle quali le attività didattiche sono state avviate nel 2014. Infine, sono stati realizzati anche 21 pozzi, con l’installazione dei sistemi di approvvigionamento energetico. Carlo Vito Russo di Eni ha sottolineato che «la società da quando ha cominciato le proprie attività in Africa nel 1953 ha iniziato con un approccio specifico. Quando arriviamo in un paese, prima di tutto cerchiamo di capire quale impatto ha la nostra attività sul territorio sia a livello ambientale che socioeconomico, incontrando le comunità e i loro rappresentanti. A quel punto stabiliamo quali progetti di sostenibilità interessano quello specifico territorio. È così che sono nati anche i progetti Hinda e delle stufe migliorate. Non è assolutamente un modo di “lavarsi la coscienza” per la nostra presenza: crediamo fermamente che sviluppare dei progetti del genere migliora anche la nostra presenza nel posto».

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