Cosa accidenti gli dicono a scuola?

Il primo compito di ogni docente è “insegnare a giudicare”. Non sono solo nei musei i maestri come il Kirke di Lewis

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sembra che ci sia qualcosa di irresistibile nel lamentarsi del sistema educativo, soprattutto da parte di quelle persone che danno troppo retta ai rapporti senza avere una reale conoscenza dell’istruzione stessa. «Ai miei tempi», proclamano spesso con voce grave e sguardo cupo, «gli esami erano difficili», «noi sì che studiavamo», «le scuole erano vere scuole», o altre affermazioni simili che si fanno quando si cerca disperatamente l’approvazione altrui. Nel migliore dei casi, queste lamentele nascono da un sentimento di nostalgia, condito con un pizzico di invidia. I brontoloni (che se va bene hanno a malapena visto uno studente con la cartella o partecipato a una cerimonia di laurea o al massimo insegnato in qualche scuola) hanno nostalgia dei giorni in cui non credevano che fosse loro la responsabilità di assicurarsi che il mondo si dovesse conformare alle massime dell’intellighenzia e ora non vogliono che sia di altri.

Le loro lamentele sono assolutamente comprensibili. Salvare il mondo è un affare importante, in particolare per chi utilizza come unica bussola gli editoriali dei giornali. L’unica scappatoia dai pesi disumani che devono portare sono il passato e il sogno di un futuro omogeneo in cui tutti si conformeranno allo stesso modo alle loro confuse nozioni di imperativo categorico. Le loro lamentele sono anche pericolose. Chi si lamenta veramente non vuole capire davvero l’oggetto della sua lamentela o il motivo per cui si lamenta. Non sono interessati alla verità, al mondo reale, ai suoi problemi, alle persone, alle loro speranze e alle loro paure. Si lamentano semplicemente per dare conferma al proprio valore: incolpare gli altri per le loro vite tristi ed essere confortati dal vigoroso assenso degli altri significa sentirsi i salvatori del mondo per chi è avvezzo a puntare sempre il dito. È per questa ragione che gli aspiranti redentori permettono agli editorialisti e agli intellettuali, che preferiscono ignorare i seri problemi che attanagliano il sistema educativo di oggi, di continuare ad affermare che tutto funziona alla grande all’interno delle sacre aule del mondo accademico. Permettono a professori, presidi di facoltà, docenti, consulenti e direttori di proseguire indisturbati sulle loro strade nocive.

Questo breve articolo sullo stato attuale del sistema educativo non è una lamentela. Non sono una che accetta il metodico sogno cartesiano o che deplora il fatto che esso non venga applicato in maniera uguale a ogni soggetto e persona. Il mio è un ritratto delle autentiche aspirazioni degli educatori e dei frutti reali del nostro sistema educativo contemporaneo. È più simile a quello suggerito dalle affermazioni del professor Kirke nel libro di C. S. Lewis Il leone, la strega e l’armadio. Nel primo romanzo di Narnia di Lewis, quando i bambini Pevensie vengono messi in salvo dai pericoli della guerra nella casa del professor Kirke, la domestica intima loro di non disturbare il professore. Ma durante un giorno di pioggia i bambini più grandi, Susan e Peter, sono costretti a rivolgersi a lui. La sorella più piccola, Lucy, sta male: da giorni la bambina parla di Narnia, un mondo innevato dove ha conosciuto un fauno, ma i fratelli non le credono. Anche un altro dei bambini, Edmund, ha visto Narnia e, cosa più importante, è stato visto là da Lucy. Edmund però nega entrambe le cose e passa le giornate a prendersi crudelmente gioco di Lucy e del suo “mondo fantastico”. Susan e Peter decidono allora di fare qualcosa per far ricredere Lucy, ma non avendo autorità si rivolgono al professore. Il professor Kirke «rimane ad ascoltare con la punta delle dita congiunte e senza mai interrompere». Alla domanda «cosa dovremmo fare con Lucy?», scuote la testa e risponde con un’altra domanda: «Come fate a sapere che la storia di vostra sorella è falsa?». I ragazzi, rimasti di sasso, mormorano alcuni luoghi comuni appresi a scuola, a cui il professore replica: «Logica! Perché a scuola non insegnano la logica?». Poi, dopo aver velocemente posto altre domande (ed essersi chiesto «cosa accidenti gli insegnano a scuola?»), il professor Kirke comincia a ragionare con Susan e Peter. Dimostra che le loro preoccupazioni sono piene di presupposti e che questi presupposti devono essere verificati. Dunque, per risolvere la questione con Lucy, non bisogna saltare a conclusioni affrettate, ma servono informazioni, prudenza e rispetto verso la sorella. La verità, fa capire loro il professore, sarebbe saltata fuori se avessero avuto la pazienza di aspettare. I ragazzi sarebbero stati in grado di riconoscerla se non si fossero ostinati a rimanere attaccati ai loro pregiudizi. «C’è un piano… che vale la pena provare», conclude: «Tutti quanti potremmo provare a farci gli affari nostri».

Usate la vostra testa
Quella di Lewis è principalmente una descrizione dell’educazione in sé, dell’atto di “tirare fuori” la conoscenza dagli studenti e di spronarli. Il professor Kirke non dice mai a Susan e Peter cosa pensa del problema di Lucy o come affrontarlo, né dice cosa loro dovrebbero pensare o fare al riguardo. Si limita a dimostrare che le teorie devono corrispondere ai fatti, che i preconcetti possono intaccare la comprensione dei fatti, e che i preconcetti devono essere messi in discussione per poter comprendere i fatti. Implicitamente nel ritratto di Lewis c’è una contrapposizione tra l’educazione e il reale sistema scolastico. Meravigliato dall’assunto dei Pevensie che Lucy sia pazza e che debba essere fatta rinsavire, il professor Kirke non rimprovera i ragazzi. Si rende conto che ai ragazzi è stato insegnato a giudicare senza prima capire e a mettere i pregiudizi davanti alle persone. È perplesso davanti a questi fatti, «Cosa gli insegnano a scuola?», e risponde ai ragazzi spronandoli a usare la loro testa. Nella storia di Lewis, Susan e Peter apprendono la lezione del professor Kirke abbastanza rapidamente. Ovviamente sono sospettosi e sembra loro strano il suggerimento di usare il buon senso e la volontà. Però imparano, non hanno altra scelta perché il professore non avrebbe pensato o deciso per loro. Lui è un educatore: reputa inaccettabile pensare e agire per gli studenti.

Ditemi qualcosa di vero
Mi piacerebbe poter scrivere che non sia cambiato molto da quando Lewis ha scritto di Kirke e dei bambini Pevensie. In un certo senso, è così: gli studenti hanno ancora bisogno di imparare, i fratelli più grandi si prendono ancora crudelmente gioco dei più piccoli, quando ne hanno. I giovani possono essere ancora terribilmente pronti a dare giudizi. Il problema oggi è che ai giovani è consentito sempre più raramente di essere giovani, e di rado hanno l’occasione di incontrare educatori come il professor Kirke. La maggior parte degli insegnanti oggi pensa che l’educazione sia indottrinamento e sono convinti che i professori Kirke nel mondo appartengano ai musei, vicino alla gente che un tempo credeva che la terra fosse piatta.

All’inizio di ogni semestre gioco un po’ al gatto e il topo con i miei studenti. Cammino per la classe e li guardo seduti ai banchi. I nuovi spesso sembrano rassegnati a passare sotto le forche caudine, trascrivendo in maniera automatica ciò che il professore dice (una serie di frasi inutili, pensano gli studenti, che non hanno niente a che fare con la realtà) e rigurgitandolo nei loro testi. Dopo aver controllato le presenze e aver letto il programma, chiedo agli studenti di dirmi qualcosa che sono sicuri essere vero. Allora gli studenti che già mi conoscono si sporgono sul banco e fissano i nuovi arrivati. Sanno di dover aspettare con me che qualcuno trovi il coraggio di parlare. Qualche minuto di silenzio segue inevitabilmente la mia richiesta, poi timidamente una voce dice: «Io so che…». L’oratore diventa agitato, teme di aver fatto un errore e vorrebbe diventare invisibile se potesse. È a questo punto che le cose si fanno interessanti. Uno degli studenti più grandi, impaziente per il silenzio, sbotta: «Come lo sai?», «È necessariamente vero?», «Perché?». Poi un altro lo zittisce: «Dagli tregua. Non ha mai avuto occasione di pensare prima d’ora! Non lo spaventare».

Amare il sapere
Solitamente ai miei studenti servono un mese o due prima di cominciare a capire che devono ragionare con la loro testa. A tanti, che capiscono che non possono appartenere alla terra della libertà se non sanno pensare e vogliono appartenere a questa terra, ci vogliono anni per imparare. Moltissimi alla fine ce la fanno. Quindi come Lewis e il suo Kirke, anch’io continuo a nutrire speranza verso gli studenti, a rispettare l’immenso onore di aiutarli a trovare la loro strada, ad amare il sapere e Boezio, che ha codificato le artes liberales. Se appartengo a un museo, almeno so che ci sono molti che desiderano unirsi a me.

Siobhan Nash-Marshall è docente di Filosofia, Manhattanville College, Purchase, New York

Exit mobile version