Corea. L’inferno dantesco del Nord comunista e il paradiso del Sud (con i suoi 124 martiri, presto santi)

Un fuggitivo racconta le atrocità vissute nei gulag: «Ho visto morire oltre duemila persone per fame, esecuzioni, torture». Nel Sud invece, dopo secoli di persecuzione, i cattolici aumentano

Due notizie agli antipodi si intrecciano in questi giorni per quanto riguarda la penisola di Corea. Da un lato, a nord, continuano ad arrivare testimonianze infernali, dall’altro, a sud, qualche accenno di paradiso, se così si può dire. L’immagine, che può apparire un po’ forzata, assume concretezza se si pensa che, come racconta oggi in una bella intervista sulla Stampa, Ahn Myeong Chul, ex guardia fuggita da un gulag nordcoreano, sui cancelli dei campi di concentramento, Kim Jong-un ha fatto affiggere un cartello dalle reminiscenze dantesche: «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate».

DA GUARDIA A PRIGIONIERO. Il racconto di Ahn è terribile e conferma, attraverso la sua viva voce, quanto il recente rapporto Onu aveva già svelato: nel paese comunista si verificano torture ed abomini degni del regime nazista. L’uomo, domani, racconterà la sua esperienza a Ginevra ad un incontro organizzato da Un Human Rights Council, narrando cosa significhi vivere per dieci in un kwalliso, un campo di lavoro nordcoreano. Ahn vi entrò, ironia della sorte, volontariamente, grazie ai buoni uffici del padre, un funzionario del regime. Qui, dal 1987 al 1994, vi rimase come guardia, finché il genitore non cadde in disgrazia per aver osato criticare il governo di Pyongyang. La vendetta fu terribile. Ahn e la sua famiglia finirono dalla parte dei detenuti a lavorare nei campi. D’altronde, il regime non fa sconti a nessuno e basta una maldicenza per precipitare all’inferno. «Nel campo 22 sono internati 50 mila prigionieri, messi dentro per due ragioni, la prima è aver parlato male del regime, la seconda essere parenti di chi ha parlato male del regime».

TORTURE, ESECUZIONI, VIOLENZE, ABORTI. «Tutti possono finire dentro, anziani, donne e bambini compresi – racconta il sopravvissuto -, basta essere tacciati di comportamenti anti-rivoluzionari». Si lavora dalle cinque di mattina alle dieci di sera, nelle miniere o nei campi. Il cibo è centellinato e chi protesta se ne vede ridotta la razione. «In sette anni ho visto morire oltre duemila persone per fame, esecuzioni, torture incidenti sui lavori forzati e malattie». Torture (il «trattamento elettrico») ed esecuzioni pubbliche (tre soldati per plotone, tre colpi ognuno, «per essere sicuri della riuscita») sono le modalità con cui si mantiene l’ordine. Non mancano le sevizie e le violenze, punite a seconda di chi sia l’autore: se è una guardia, viene allontanata dal campo e la donna costretta ad abortire; se è un prigioniero viene ucciso assieme alla donna violentata.

I 124 MARTIRI COREANI. Dal Sud del paese, intanto, arrivano notizie di segno totalmente opposto. Padre John Jong-su Kim, rettore del Collegio coreano di Roma, ha raccontato all’agenzia Zenit, la propria felicità per la prossima canonizzazione (ad agosto) di 124 martiri coreani. Già il mese scorso papa Francesco ha approvato la promulgazione del decreto che riconosce il martirio dei coreani uccisi tra il 1791 e il 1888.
Il paese, infatti, ha conosciuto il cristianesimo solo tre secoli fa quando Lee Seung Hun, un diplomatico erudito studiò il Vangelo durante una sua missione a Pechino e si fece quindi battezzare col nome di Pietro. «Con il tempo – spiega padre John a Zenit – i primi cristiani coreani entrarono in contatto con le gerarchie pontificie, chiesero quindi l’invio di un missionario che fu un padre cinese, giunto in Corea alla vigilia di Natale del 1794». Ma le persecuzioni iniziarono ben presto a causa di un editto, che li indicava come nemici della patria e del culto degli anziani, ed è proseguita fino alla metà del secolo scorso.

LA CRESCITA DEL CATTOLICESIMO. Oggi, la situazione è notevolmente migliorata, tanto che nel paese i cattolici sono circa cinque milioni e quattrocento mila e rappresentano il 10 per cento della popolazione (il trenta per cento se si considerano tutti i cristiani) e il presidente, la sessantaduenne Park Geun-hye, è di confessione cattolica. Padre John attribuisce gran parte del merito di questa vivacità a Giovanni Paolo II, il quale visitò per la prima volta il Paese nel 1984, “quando c’erano neanche due milioni di cattolici». La presenza del papa polacco suscitò tuttavia un fermento, tanto che «oggi in Corea del Sud il Cattolicesimo è l’unica religione che continua a crescere».
Padre John ha raccontato delle sue visite anche al Nord dove, dice, ci sono tra i tremila e gli ottomila cattolici, ma sono calcoli assai approssimativi, non potendo essere la fede testimoniata alla luce del sole. Certo, esiste una Chiesa di regime, costituita dal governo e guidata da un laico. «Ho conosciuto alcuni appartenenti a questa Chiesa», dice il sacerdote John. Che ironicamente prosegue: «Recitano molto bene i canti cristiani e le preghiere, lo fanno a memoria, dando l’impressione di possedere una fervente fede. Si tratta solo di una propaganda di regime».

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