Migranti, non c’è lavoro senza formazione

«Il tema è l'integrazione, mettere all'opera gli stranieri è una necessità anche nostra. Ma questa passa dai percorsi professionali», dice Angelo Colombini. «Iniziamo a rilanciare le scuole edili»

«Al di là delle diverse visioni che il ceto politico attuale ha sull’immigrazione e al di là delle varie ricette per il mercato del lavoro, c’è un dato centrale che soltanto il Papa ha ben chiaro nella mente: l’integrazione dei lavoratori stranieri». A dirlo a Tempi è Angelo Colombini, già membro della segreteria confederale della Cisl. Contando sul suo osservatorio privilegiato del mondo del lavoro, a Colombini abbiamo girato alcuni interrogativi su uno dei temi principali di questo tempo, occupazione e flussi migratori.

C’è chi parla di 500 mila immigrati necessari per coprire il fabbisogno di manodopera, chi, invece, dice che il dato è sovrastimato, altri si mantengono più bassi. Com’è per davvero la situazione?

Cominciamo col dire che in Italia abbiamo già oggi un 10 per cento di immigrati, e questa è una cosa positiva. Dall’altro lato c’è un tema che nessuno tratta, a mio avviso, adeguatamente, mi riferisco alla loro integrazione.

Nessuno ne parla?

Sì, al massimo vi si accenna in modo astratto, generico ma chi ne parla per davvero e con cognizione di causa, mi permetto di dire, è soltanto il Papa.

E la politica?

Il centrodestra dice «lasciamoli a casa loro e aiutiamoli lì dove vivono», e questa mi sembra una cosa buona e intelligente, non impossibile ma molto complicata; il centrosinistra, invece, dice «accogliamoli, accogliamoli» con gli effetti che conosciamo. Dentro a tutta questa posizione generale il tema più grande è integrare queste persone, che comunque scappano da guerra, miseria e cambiamenti climatici che condizionano i loro territori, quando cioè non riescono più a coltivare i terreni, quando l’acqua si fa rara o al contrario è in eccesso, etc.

D’accordo, ma l’integrazione è un dato successivo alle premesse in base al quale milioni di persone si spostano nel mondo. Come ci si può muovere su questo terreno in maniera diversa rispetto a quanto accaduto finora in Italia?

Integrare significa dare loro, oltre alla dignità, una possibilità forte e concreta per farli lavorare, tra l’altro è una necessità anche nostra. Devono innanzitutto conoscere l’italiano, questo vuol dire integrare veramente; poi vanno collocati dopo percorsi professionali, di riqualificazione o anche di altre scuole di istruzione superiore, poi vanno accompagnati dentro il nostro fabbisogno.

Ecco uno dei punti fondamentali, il fabbisogno. Dove possiamo individuarlo con precisione?

Esistono diverse tipologie di lavoro che hanno un preciso significato in questo contesto: una richiede l’istruzione superiore e devo dire che alcuni immigrati hanno una formazione discreta che deve, però, essere aggiornata rispetto a quella italiana o europea. L’altra è quella non di alto livello pur restando “professionale”, vedi in edilizia, in agricoltura e nel turismo. In questi tre settori, come si sa da tempo, non riusciamo a recuperare una manodopera italiana, vuoi perché le famiglie italiane educano i nostri figli a voler fare altro, salvo rimanere poi disoccupati, vuoi perché la scuola non è ancora in grado di valorizzare lo studio professionale, come gli Its ad esempio.

Ma ci vuole tempo per queste cose oppure si possono fare in tempi relativamente brevi, e chi dovrebbe farli questi percorsi formativi?

Noi parliamo di attività di istruzione dove, nel giro di otto mesi, l’80 per cento dei formati trova uno sbocco, se consideriamo che il Pnrr investe un miliardo e mezzo di euro sugli Its capiamo che l’occasione è grandiosa per seguire questa strada. Possono farlo sia gli italiani che gli stranieri. Certo, è un investimento di oggi che ti dà una risposta tra quattro o cinque anni. Se però non inizi non finisci. È una vita che tutti dicono «accogliamoli», «lasciamoli là e finanziamoli nei loro paesi», ma all’integrazione, cui facevamo riferimento prima, non pensa nessuno. Mi chiedo: governo e opposizione sono in grado, ora che la materia si sta facendo incandescente, di approvare insieme un programma di integrazione?

C’è un’autorevole, benché spesso silenziata, corrente di pensiero secondo la quale se non risale la curva demografica nessuna ricetta potrà mai funzionare: c’è relazione tra la crisi demografica e la necessità di manodopera, uno stimolo alla natalità potrebbe nel lungo periodo compensare questo squilibrio o, come si dice, ormai i buoi sono scappati?

Questo è uno dei problemi della cosiddetta transizione. Il governo ha detto che bisogna sviluppare molta attenzione sulla maternità e relativo declino demografico. Giusto, specie se consideriamo che noi abbiamo troppi ragazzi che vanno a lavorare all’estero e, contestualmente, immigrati che non riusciamo a integrare. Le famiglie che arrivano in Italia – e questo mi pare importante – soprattutto africane, non hanno il problema demografico, dentro la loro cultura il figlio è visto come un bene per la famiglia e un investimento per la società. Dovremmo averlo, recuperarlo anche nella cultura italiana.

Quindi il problema è culturale, non solo di congiuntura economica.

Certo, vorrei che questo venisse sottolineato.

Il settore economico che necessita di più attenzione qual è?

Ce ne sono diversi ma partirei innanzitutto dall’edilizia. In questo caso vanno rilanciate le scuole edili che una volta si facevano per la manodopera italiana, oggi puoi farla per gli immigrati.

Ma ancora esistono?

Sì, ce ne sono ancora in giro, ma anche loro sono colpite dalla crisi che conosciamo.

E poi?

Poi c’è tutto il tema del turismo, che vuol dire alberghiero soprattutto, ma anche ciò che vi è legato, dalla montagna alla terra al mare. Terzo settore che non va dimenticato è sicuramente l’agricoltura. Tra questi tre punti l’aspetto più importante, ripeto ancora, è che gli stranieri imparino l’italiano perché, semplificando, come fa uno straniero a capire l’importanza delle regole su salute e sicurezza sul posto di lavoro o altro? Un’altra cosa importante è l’imprenditoria straniera, quella serie di piccole e medie imprese diffuse sul territorio e che vediamo qui e là: sono già abbastanza integrati i titolari con le loro famiglia, ma ora abbiamo il problema dei nuovi arrivi su cui, secondo me, si dovrà lavorare nella direzione di cui abbiamo parlato.

Foto Ansa

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