La Cina esagera: «Premio Nobel per la medicina al laboratorio di Wuhan»

È iniziata la fase tre della propaganda comunista: invece di premiare i medici zittiti dal regime che cercarono di avvisare il mondo sul virus, Pechino premia gli scienziati sospetti

«Gli scienziati del laboratorio di Wuhan meritano il premio Nobel per la medicina». Se fosse uno scherzo farebbe ridere, ma non lo è. Il virgolettato è serio e proviene dal portavoce del ministro degli Esteri cinese, Zhao Lijiang. Secondo Zhao, infatti, gli scienziati dell’Istituto di virologia di Wuhan, lungi dall’essere responsabili dell’accidentale fuoriuscita del Covid-19 dal laboratorio, sono piuttosto i primi ad aver scoperto la sequenza genetica del nuovo coronavirus. Pertanto meritano un premio e non «calunnie».

«Risultati eccezionali» a Wuhan

Al di là dell’origine del virus, ancora sconosciuta, non c’è dubbio che la Cina non abbia reso un buon servizio al mondo intero, nascondendo nei primi mesi della pandemia la verità sul virus e lasciando che si diffondesse al di fuori di Wuhan e dei confini nazionali.

Per lavarsi la coscienza e respingere le accuse, sempre più insistenti, su una possibile fuoriuscita del Covid-19 dall’Istituto di virologia di Wuhan, l’Accademia delle scienze cinese (Cas) ha nominato l’Istituto come candidato a ricevere il premio riservato a chi raggiunge «risultati eccezionale nel campo della tecnologia e della scienza» negli ultimi cinque anni. In particolare, sono stati citati i nomi di Shi Zhengli e di Yuan Zhiming, direttore dell’Istituto.

Premiate Li Wenliang piuttosto

Il Covid-19 è un tema troppo politico e delicato perché la Cina non lo tratti con tutta la forza del suo mastodontico apparato di propaganda. Ma se per una volta il regime comunista considerasse l’argomento dal punto di vista della salute e della sicurezza dei cittadini, il premio scientifico lo darebbe ad altri due medici: Ai Fen e Li Wenliang.

Li Wenliang è stato il primo medico a Wuhan a lanciare l’allarme sulla pericolosità del nuovo virus, molto più letale della normale polmonite, il 30 dicembre. Dopo aver avvertito alcuni colleghi, l’oftalmologo venne convocato in piena notte dal segretario del comitato disciplinare del Partito comunista interno all’ospedale, che «mi ha ripetutamente chiesto quale fosse la mia fonte, aggiungendo che mi stavo sbagliando. Poi mi ha chiesto di scrivere un documento di autocritica per aver diffuso notizie false».

«Mi hanno obbligata a tacere»

Il 3 gennaio Li fu convocato alla stazione di polizia, «dove mi hanno chiesto di firmare un documento nel quale ritrattavo il contenuto dei messaggi inviati ai miei colleghi sul nuovo coronavirus». Li ha reso queste dichiarazioni dal letto di ospedale dove è stato ricoverato in seguito ad aver contratto il virus sul lavoro, «dove ci obbligavano a non indossare la mascherina» per non scatenare il panico. Li morì il 7 febbraio 2020 da vero martire della scienza.

Ai Fen, direttrice del pronto soccorso dell’Ospedale centrale di Wuhan, è tra i colleghi di Li Wenliang che il 30 dicembre scoprì l’esistenza del virus. Anche lei cercò di avvisare le autorità competenti, ma fu criticata, ricevendo il messaggio di non diffondere informazioni «per evitare il panico». Due giorni dopo, il capo del Comitato di Partito interno all’ospedale la rimproverò per aver «diffuso voci e messo in pericolo la stabilità» e le vietò di diffondere messaggi o immagini relative al virus. Ai dichiarò al magazine Renwu:

«Mi fece sentire come se fossi io a rovinare il futuro di Wuhan. Mi stava punendo solo per aver fatto il mio lavoro. Ma come potevo non dire niente a nessuno davanti a un nuovo virus così pericoloso? Io avevo solo seguito il mio istinto di medico. Se solo potessi tornare indietro, lo direi a tutti: i miei colleghi non sarebbero morti. Se avessi saputo che cosa sarebbe successo, me ne sarei infischiata dei rimproveri da parte dei miei superiori. Ne avrei fottutamente parlato a chiunque e dovunque».

Gli errori capitali della Cina

Ai obbedì al regime come Li, chiese almeno di poter indossare la mascherina ma le fu risposto di no. Mentre il governo cinese, con la complicità dell’Oms, continuava a ripetere che il virus non poteva trasmettersi da persona a persona, «sempre più pazienti arrivavano al pronto soccorso mentre il raggio dell’infezione si allargava», continua Ai nell’intervista. «Era evidente che il virus poteva essere trasmesso dalle persone».

Il Partito comunista cinese avrebbe potuto ascoltare i suoi medici invece che minacciarli, ma era troppo impegnato a difendere la propria immagine e a non compromettere la riunione provinciale del Partito, che si svolse a Wuhan dal 7 al 17 gennaio.

Fase 3 della propaganda comunista

Invece che elogiare i medici che hanno cercato di avvisare il paese del rischio che stava correndo, invece che rendere onore a coloro che sono morti, il segretario del Partito di Wuhan, Wang Zhonglin, lanciò un’inedita campagna per «educare la popolazione a mostrare gratitudine verso il Partito comunista». La campagna di propaganda continuò mettendo in discussione l’origine del virus: non bisogna parlare di “febbre di Wuhan”, ma di Covid-19, anche perché il nuovo coronavirus è stato passato alla Cina «dagli Stati Uniti o dall’Italia».

Ora il governo passa alla fase tre della sua campagna di propaganda: premia per i loro risultati scientifici quei medici che l’Occidente sospetta di avere, volontariamente o no, combinato il patatrac. E addirittura propone di insignire il laboratorio di Wuhan con il premio Nobel per la medicina. Il regime non ha mai temuto di rendersi ridicolo fino al grottesco. Speriamo almeno che questa volta l’Oms non gli dia retta.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Exit mobile version