Che senso ha celebrare un Dante “depurato”?

Dantedì con interviste immaginarie e moniti quirinalizi, che pena. L'Alighieri ridotto a "moda", bonificato dei suoi elementi più contundenti, genera solo equivoci

L’apice lo ha raggiunto Repubblica che è riuscita a “intervistare” Dante (“Fatti non foste a viver come bruti tra fake news”). Che l’espediente retorico sia un po’ bolso è pure il minore dei mali; il peggio è che l’Alighieri viene fatto diventare un fustigatore di fake news (come da titolo) e un moralizzatore contro l’odio social e i bulletti da tastiera. Il colmo lo si raggiunge quando l’autore dell’intervista, Stefano Massini, gli mette in bocca il lamento per essere stato esiliato da Firenze a causa di un uso spregiudicato della giustizia.

«Son’io il Dante Alighieri che subì un processo da riderne soltanto, allestito da chi voleva solo un modo per farmi fuori da Firenze! Il maggiore biasimo che io possa provare è per chi non ha remora a intessere trame pur di eliminare chi non la vede come lui…».

Quindi Repubblica, il giornale che da 45 anni cavalca ogni inchiesta giudiziaria per “eliminare” gli avversari politici, fa dire a Dante di essere stato vittima di una giustizia ingiusta. Immaginatevi voi come darebbe oggi la notizia Repubblica se un uomo fosse condannato – come fu Dante – con questa sentenza:

«Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia».

Dante è diventato una moda

C’è qualcosa che non torna nelle celebrazioni dantesche. Sia ben chiaro, siamo noi i primi a rallegrarci che il Sommo Poeta sia ricordato con tutti gli onori da un paese che gli deve molto, moltissimo. Eppure c’è forte l’impressione di posticcio, con slogan d’occasione e un certo dantismo di maniera. Non ha torto Antonio Socci quando scrive (“Tutti pazzi per Dante”) che da qualche anno Dante è diventato «una moda».

«Tale mania collettiva nella società dello spettacolo appaga forse il bisogno di sentirsi colti (riducendo l’arduo e il sublime al banale) e appaga il bisogno (inconscio e inconfessabile) di ritrovare radici e senso di appartenenza a una civiltà che ha illuminato il mondo».

Da questo punto di vista, il Dantedì (25 marzo) ha dato la giusta rappresentazione di come oggi guardiamo l’Alighieri. Ogni quotidiano ha messo in pagina la sua “marchetta” al genio fiorentino, a partire dal Corriere della Sera che ci ha offerto – addirittura – l’intervista al capo dello Stato sull’autore della Divina Commedia. Un lungo dialogo ricco di frasi fatte, osservazioni inoffensive, retorica senza sugo.

Islamofobo e omofobo

Sarà una nostra impressione, ma ci fa un po’ strano che nella celebrazione dell’Alighieri si evitino con accuratezza alcuni temi. Si insiste molto sul Dante “padre della lingua italiana”, ma perché tutti fingono di dimenticare che l’Alighieri, secondo i criteri correnti, sarebbe oggi bollato come un islamofobo, omofobo, bigotto cattolico e imperialista teocratico?

Ha ragione Marcello Veneziani quando scrive che

«una società straniera alla sua visione poetica e profetica, lontana da ogni senso del divino e dell’ultraterreno, sorda a ogni richiamo alla tradizione, alla morale e al sacro, avulsa dalla fierezza identitaria e dal principio di sovranità, cosa può celebrare di Dante, se non giocare su un equivoco e una marchetta?».

(È poi di ieri la notizia che nella nuova traduzione dell’Inferno in olandese è stato omesso il nome di Maometto così che il testo non risultasse «offensivo» nei confronti dei musulmani).

L’inesauribile nel definito

Si celebri dunque Dante – come anche Tempi sta facendo da qualche mese -, ma, almeno, non nella maniera selettiva con cui lo si sta facendo adesso, depurandolo di quegli aspetti che oggi la mentalità dominante ritiene “inaccettabili”, non ultima una concezione della fede che non ha nulla a che fare con lo spiritualismo evanescente e la razionalità solo euclidea che va per la maggiore oggi.

Celebrare un Dante “depurato” è un’operazione senza senso. Studiarlo per comprenderne la visione del mondo e del reale è una ricchezza entusiasmante. Certo, ci vuole una certa apertura d’animo e anche una certa raffinatezza d’ingegno, ma basterebbe almeno un pizzico di onestà intellettuale per non ridurre Dante a megafono di moniti quirinalizi e prediche repubblicones. Per chi volesse cimentarsi nell’impresa, le sorprese – anche 700 anni dopo – potrebbero essere molte.

Come ha scritto Paul Claudel nel saggio che trovate solo su Tempi:

«Lo scopo della poesia non è, come dice Baudelaire, di immergersi “al fondo dell’Infinito per trovare del nuovo”, ma al fondo del definito per trovarvi dell’inesauribile. Questa è la poesia di Dante».

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