Che goduria leggere lo Scalfari “pro bavaglio” contro il giornale “anti bavaglio” fondato dal Scalfari

Eugenio Scalfari se la prende con gli "irresponsabili" che attaccano Napolitano sulla base di intercettazioni "illecite". Nel mirino finiscono giornali (il suo), pm e Procura di Palermo.

«Avrei preferito che, alle telefonate di Mancino, D’Ambrosio avesse messo giù il telefono», ha scritto Liana Milella, giornalista di Repubblica, sul suo blog. Per quale motivo? Perché il Segretario generale del capo dello stato, Loris D’Ambrosio, non avrebbe dovuto ascoltare le lamentazioni di un ex vicepresidente del Csm? Perché Mancino, che all’epoca delle chiamate al quirinale era testimone della Procura di Palermo, non avrebbe dovuto avanzare dubbi sui magistrati che lo stavano intercettando? O perché Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, ha deciso di attaccare i Pm di Palermo e i loro strenui difensori, quando lui stesso, Repubblica e la stessa Liana Milella non fanno altro che difenderli?

Se la vicenda è paradossale per Nicola Mancino, che da vice-presidente del Csm non avvertì mai la necessità di dichiarare pubblicamente i propri dubbi sui metodi dei magistrati, emersi invece nelle sue telefonate al quirinale, neanche a Repubblica fanno la figura dei mostri di coerenza. A gettarla in un «cortocircuito pirotecnico», come ha scritto Il Fatto, è stato il fondatore, Eugenio Scalfari, che, sul caso Mancino-Napolitano, ha adottato la linea dura, definendo «irresponsabili» quanti in questi giorni hanno pensato di attaccare Napolitano. Fra quelle telefonate intercorse fra il quirinale e Nicola Mancino, e intercettate dalla Procura di Palermo, ce ne sarebbero alcune fra Mancino e Giorgio Napolitano. Intercettazioni che non sono state distrutte e che secondo Scalfari rappresenterebbero un «gravissimo illecito».

L’arzillo “vegliardo” e mostro sacro del giornalismo italiano ha affrontato i procuratori di Palermo, Il Fatto Quotidiano e persino i giornalisti di Repubblica, Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo, che il 21 giugno scrivevano di un «eccessivo attivismo al Quirinale intorno alla delicata inchiesta di Palermo», riferendosi alla lettera di spiegazioni sull’inchiesta “stato-mafia” mandata dal Presidente della Repubblica al Procuratore Generale di Cassazione. Nella stessa pagina, l’opinione di Scalfari è opposta: «Sul caso Mancino, Napolitano ha fatto nient’ altro che esercitare i suoi poteri e doveri. Non è la prima volta, il presidente si è mosso ogni volta che si sono verificati casi analoghi, per far sì che la magistratura andasse correttamente e compattamente in una direzione».

Ancora l’8 luglio, Scalfari scrive un editoriale a proposito dell’illecito in cui sarebbero incorsi gli agenti della polizia giudiziaria, intercettando il capo dello stato, e i magistrati, conservando le registrazioni. «La gravità di questo comportamento» scrive Scalfari «sfugge del tutto ai giornali che pungolano il Capo dello Stato senza però dire una sola sillaba sulla grave infrazione compiuta da quella Procura la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione fino a quando -in seguito ad un “impeachment”- non sia stato sospeso dalle sue funzioni con sentenza della Corte Costituzionale eretta in Suprema Corte di Giustizia».

Il giorno dopo, sulle pagine di Repubblica, risponde il Procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, dichiarando che anche il capo dello stato potrebbe essere “occasionalmente” intercettato, se si tratta di intercettazioni indirette: «Nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione. Alla distruzione si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con la autorizzazione del gip, sentite le parti».

Nella polemica fra Scalfari e la Procura di Palermo entra anche Antonio Ingroia: «Dispiace», dice il pm al radioprogramma La Zanzara commentandogli editoriali di Scalfari, «che un padre del giornalismo italiano sia incorso in questo grave infortunio, ma non essendo laureato in giurisprudenza glielo possiamo perdonare». Il Fondatore ricorda a Ingroia di essersi laureato in Giurisprudenza nel 1946, a ventidue anni, con 110 e lode, e lo attacca: «Se la raccolta di notizie del dottor Ingroia porta a risultati così completamente infondati, questo non è certo un segnale rassicurante sulle capacità professionali del sostituto procuratore».

C’è da chiedersi che linea editoriale seguirà Repubblica, dopo gli “attacchi” del suo Fondatore alla Procura di Palermo, alle intercettazioni di un’alta carica dello stato e agli irresponsabili giornali che le usano per attaccarla.

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