«Caro Duce, ti scrivo». Il lato servile degli antifascisti durante il Ventennio

Li fanno studiare a scuola e li incensano come i maître à penser della nazione, ma un saggio ne svela le ossequiose lettere ai tempi del Duce. E rivela un particolare inedito su “Il conformista” di Moravia

Ennio Flaiano poté ben dire che in Italia imperano due tipi di fascismo, il fascismo e l’antifascismo, per il semplice motivo che da noi è tutto un concentrato di “ex”. Gli “anti” compresi. Il passato fascista di mille antifascisti nostrani, soprattutto quelli di fama e qualità, riemerge spesso in questo nostro paese delle nebbie. Ma il grande pregio del nuovo libro di Roberto Festorazzi, «Caro Duce, ti scrivo». Il lato servile degli antifascisti durante il Ventennio (Ares, Milano 2012), non è tanto quello di tornare a stuzzicare uno dei casi freddi più clamorosi dell’intera indagine politico-culturale italiana, quanto quello di farne percepire efficacemente al lettore la “massa d’urto”.

Gli esempi di antifascisti doc dal passato scottante sono decine. E sono tutti nomi blasonati, persino adoperati come abbecedario in uno dei by-product più angoscianti del sontuoso castello di falsità su cui si regge buona parte della repubblica italiana: la scuola di Stato.

In questo paese di olimpionici del trasformismo è facile ripensare ai banchi del biennio delle superiori. Chi di noi è passato indenne da Gli indifferenti di Alberto Moravia o da Uomini e no di Elio Vittorini? Perché – ecco il punto – cosa c’è da imparare da quel Moravia che sguazzava nel fascismo come un topo nel formaggio? Quel Moravia che da giovane voltò le spalle ai propri cugini, i Rosselli, i due fratelli socialisti che l’antifascismo ha glorificato quali “martiri” della libertà, i quali finirono morti ammazzati da mano sicaria nel 1937 nella Parigi dove vivevano l’esilio? Gli assassini dei Rosselli erano estremisti del fascismo francese, ma Moravia lasciò volentieri che, pur avendo egli stesso sangue ebreo nelle vene, un suo racconto venisse tradotto, nel 1941, sulle pagine del settimanale Je suis partout, irrimediabilmente divenuto un organo antisemita del collaborazionismo più smaccato nella Francia occupata dai nazisti. Ma di più.

Pubblicando il racconto Il conformista nel 1951, cioè in tempi in cui non era nemmeno tanto di moda leccare il fascio, Moravia rincarò la dose, assumendo sulla vicenda Rosselli (è una scoperta nuova che si deve a Festorazzi) il punto di vista di tale Giacomo Antonini, confidente della polizia politica all’epoca del delitto nonché amico dello scrittore.

Il mio amico Mussolini
Né ha molto da insegnare pure Vittorini, «intellettuale impegnato, organico al fascismo» – scrive Festorazzi –, che «ancora nell’autunno del 1942, […] partecipa, con Giaime Pintor e altri, al convegno di Weimar degli scrittori europei, organizzato sotto l’egida del ministro della Propaganda di Hitler, Joseph Goebbels». Su pagine di regime aveva del resto esordito 23enne il 16 dicembre 1931, regalando stralci della sua opera prima, Piccola borghesia, a Il Tevere, quotidiano voluto e finanziato da Benito Mussolini in persona che, nelle mani di Telesio Interlandi, fascista, antisemita e massone, diventerà presto l’«inesorabile martellatore della nuova coscienza “razziale”».

«Caro Duce, ti scrivo» sembra l’elenco del telefono. Tra decine e decine di futuri antifascisti sdraiati come zerbini ai piedi del Duce, la lista annovera pure «i salamelecchi di Arturo Labriola, l’inconfessabile amicizia di Pietro Nenni con Mussolini», un insospettabile Luigi Einaudi che chiede venia al capo del fascismo per certe mattane antifasciste dei figli e, ovvio, Norberto Bobbio. L’8 luglio 1935 scrisse al capo del fascismo per chiedere «che venisse annullata un’ammonizione a suo carico dopo l’arresto subìto nello stesso anno, e la condanna al carcere per 15 giorni, con la motivazione di appartenenza al movimento antifascista di Giustizia e libertà».

Vietato domandare
Famosissimi poi l’Eugenio Scalfari prode fascista in gioventù; il Dario Fo già repubblichino di Salò (ne scrisse Michele Brambilla sul Giornale del 1° marzo 2007); l’Enzo Biagi ex giovane italiano del littorio (ne scrisse Angelo Crespi sul Domenicale del 27 gennaio e del 3 marzo 2007); e quel Giorgio Bocca che nel 1975 definì le Brigate Rosse una fiaba inventata dalla polizia per controllare gli italiani, ma che prima, il 4 agosto 1942, su La Provincia Grande, aveva firmato un articolo in cui addossava le colpe dello scoppio della Seconda guerra mondiale al “complotto ebraico”. E se l’editore Bompiani pubblicò al tempo il Mein Kampf e il Mein Leben di Adolf Hitler – c’è tutto in Il contratto. Mussolini editore di Hitler di Giorgio Fabre (Dedalo, Bari 2004) –, una ulteriore ottima lettura è Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo (Rizzoli, Milano 2007) di Pierluigi Battista.

Ovvio: molti di coloro che si appiattirono al fascismo tenevano famiglia, ma ciò li allontana mille miglia dai Sacharov e dai Solzenicyn (e comunque una dignità maggiore non avrebbe certo guastato). Poi però ci sono gli altri, quelli che dall’infatuazione per la dittatura nera sono passati all’amore per i liberticidi rossi e al “divieto di fare domande”. Perfetti yes men del pensiero unico, di qualsiasi colore sia. Tristissimo dunque farne dei monumenti nazionali.

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