Cari medici, i genitori di Alfie sono vostri alleati

Cos'è la malattia misteriosa da cui è affetto il bambino, perché ai medici va chiesta «più umiltà» e ai giudici un diverso sguardo. Intervista al professor don Roberto Colombo



Ieri Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss), ha detto al Tg2000 che nel caso di Alfie Evans «la medicina diventa disumana. Non si può trattare così un bambino e una famiglia».
Abbiamo chiesto al professor don Roberto Colombo, docente della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica presso il Policlinico Gemelli di Roma, ed esperto di genetica clinica delle malattie rare con al suo attivo recenti pubblicazioni sulle riviste Clinical Genetics, Annals of Neurology, Journal of Rare Diseases e Proceedings of the National Academy of Sciences of the USA, di chiarire alcuni aspetti biologici e medici della malattia di cui soffre Alfie e sulle incertezze che riguardano la diagnosi e la prognosi.
Professor Colombo, che cosa si può dire con ragionevole certezza sulla malattia di cui soffre Alfie?
Tra gli esperti internazionali che stanno seguendo a distanza la drammatica vicenda del bambino, vi è consenso nel ritenere che possa trattarsi di una forma particolarmente aggressiva di epilessia con mioclono. L’epilessia mioclonica progressiva («Progressive Myoclonus Epilepsy», PME) è tra le più “temute” forme di epilessia pediatrica («dreaded», così la chiama l’Handbook of Clinical Neurology nell’edizione del 2013, all’inizio del capitolo 178). Il termine PME designa un gruppo eziologicamente eterogeneo di neuropatie che hanno in comune un quadro caratterizzato dalla comparsa di crisi convulsive in progressivo peggioramento e poco responsive al trattamento farmacologico e dietetico-clinico, e da mioclono, ossia brevi contrazioni involontarie di un muscolo o di un gruppo di muscoli, come quelli degli arti. Corrispondono alla categoria diagnostica della PME diverse malattie rare che si differenziano per esordio, causa, prevalenza nelle diverse popolazioni ed evoluzione clinica. Attualmente, l’esito dei trattamenti terapeutici non è risolutivo e la durata media della vita dei pazienti è più breve rispetto a quella di altre forme epilettiche. Dal pochissimo che è dato di sapere in termini professionali (dati clinici e referti di neuroimmagini, elettrofisiologici e di laboratorio biochimico/genetico) all’esterno dell’Alder Hay Children’s Hospital di Liverpool, la diagnosi dirimente tra le diverse forme di PME (o l’esclusione di ciascuna di esse) non sembrerebbe ancora disponibile per Alfie. Per questo si continua a parlare nella comunicazione pubblica di “malattia misteriosa” e i suoi genitori giustamente insistono per un approfondimento diagnostico che – nell’era della neuropatologia cellulare e molecolare – non può non passare attraverso ulteriori e doverose indagini citologiche, metaboliche e genetiche presso un centro clinico specializzato in queste ricerche. Pur considerando che si prospetta, al momento, un’assenza di efficaci protocolli terapeutici, il desiderio ragionevole dei genitori di conoscere – per quanto possibile allo stato attuale delle metodiche di indagine e dei dati scientifici e clinici disponibili – le causa biologica della malattia, anche in vista di una eventuale successiva gravidanza per un secondo figlio (nel caso in cui la patologia sia ereditaria), non deve essere respinto da un ospedale pediatrico, ricorrendo, se necessario, alla collaborazione con altri nosocomi e specialisti. Talvolta, purtroppo, la diagnosi confermativa può essere ottenuta solo post mortem, attraverso l’autopsia.
Quali sono alcune di queste epilessie miocloniche e come si manifestano?
I nomi sono noti a chi si occupa di malattie rare del sistema nervoso centrale, e comprendono, tra l’altro, la sindrome di Dravet (chiamata anche epilessia mioclonica grave neonatale/infantile), la malattia di Unverricht-Lundborg (o epilessia mioclonica baltica, perché venne descritta per la prima volta oltre un secolo fa in Finlandia), la malattia di Lafora, le encefalopatie mitocondriali e altre patologie neurometaboliche, come la sialidosi (malattia da accumulo lisosomiale) e una forma infantile di ceroidolipofuscinosi neuronale, la malattia di Santavuori-Haltia. Molte di queste sindromi o malattie sono ereditarie e sono state associate alla presenza di mutazioni in geni noti. Il fatto che nelle due famiglie dei genitori di Alfie – a quanto è dato di sapere – non si sono manifestate in precedenza malattie identiche o simili non esclude una possibile causa genetica, in quanto le mutazioni potrebbero trasmettersi per via recessiva, oppure la mutazione potrebbe essere di tipo “de novo” (insorta per la prima volta nella procreazione di questo bambino).
Come affermano Philippe Ryvlin, Sylvain Rheims e Pierre Thomas nel capitolo 52 del volume Neurology and Clinical Neuroscience (2007), alcune di esse «allo stadio precoce [di manifestazione della malattia] sono spesso erroneamente diagnosticate come epilessia mioclonica giovanile, a motivo della simile età di insorgenza e del tipo di convulsioni che si presenta all’esordio. Tuttavia, una dettagliata analisi dei movimenti mioclonici consente di anticipare la prognosi molto più grave», quella di una PME. Infatti, la principale caratteristica comune alle diverse forme di PME è proprio «la presenza di tali movimenti mioclonici [involontari, improvvisi e imprevisti] che deve essere ricercata attivamente» con molta attenzione. Per questo, è molto importante ai fini della diagnosi una collaborazione intensa con i genitori, che possono osservare più facilmente i movimenti del bambino durante tutte le ore nelle quali i medici o gli infermieri non sono presenti: serve dare credito alla loro descrizione e non trascurare quanto essi riportano sul comportamento del figlio. In pediatria, e ancor più nella neuropediatria delle encefalopatie, la mamma e il papà non sono da considerare come “antagonisti” o “marginali” per la corretta diagnosi e l’appropriata terapia, ma preziosi “alleati” e indispensabili “referenti” sulle condizioni fisiche del piccolo paziente. La presunzione del personale sanitario, ancorché ben preparato e di solida esperienza, di poter comprendere meglio “da soli” di cosa soffre il bambino e decidere quale è il suo “migliore interesse” («best interest», sul quale si è giocata pressoché interamente la vicenda giudiziaria di Alfie) non è solo una questione etica e giuridica, ma anzitutto clinica.
La collaborazione dei genitori è indispensabile per prendersi cura integralmente, “al meglio”, del loro figlio, e deve essere costruita e ricercata da medici e infermieri senza stancarsi mai, anche quando mamma e papà non sembrano capire la condizione obiettiva del bambino o mostrano (comprensibilmente, visto il loro coinvolgimento affettivo ed emotivo grande) una istintiva diffidenza o reticenza verso il consenso a determinati atti diagnostici e terapeutici. Diffidenza e reticenza che possono venire superate solo dando loro fiducia quando riferiscono su ciò che osservano o intuiscono del proprio figlio nei momenti in cui sono soli con lui. Questo fa parte non solo di una corretta raccolta dell’anamnesi alla prima visita o alle successive in regime ambulatoriale o di day hospital, ma anche dell’aggiornamento quotidiano della cartella clinica pediatrica nel corso della degenza, quando i genitori sono presenti accanto o nella camera del loro figlio tutto il giorno e talvolta anche di notte.
È possibile dire qualcosa sulle prospettive di vita terrena che restano aperte per Alfie?
In assenza di una diagnosi dirimente, che consenta di mettere a confronto la storia patologica di Alfie e il suo quadro clinico attuale con quelli di altri bambini che hanno sofferto della medesima malattia, non è corretto né rispettoso fare affermazioni in questa direzione. Ciò era possibile nel caso del bambino Charlie Gard, in quanto sapevamo che era affetto da una forma rara – ma tuttavia già nota e descritta in oltre 15 casi precedenti – della sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. Nel caso di Alfie, come sopra ricordato, si aprono diverse ipotesi diagnostiche, ognuna delle quali porta con sé il riferimento a casi precedenti (più o meno rari) descritti in letteratura medica. Non sappiano, dunque, quale statistica prognostica debba essere presa in considerazione.
A solo titolo di esempio, e senza la pretesa di esaurire il ventaglio delle probabilità né suscitare irrealistiche attese (che potrebbero essere solo un mero flatus vocis), possiamo ricordare che – nel caso si trattasse di una PME del tipo della sindrome di Dravet – una review del 2016, pubblicata sulla rivista Epilepsy Research dalla dottoressa australiana Monica Cooper, docente della University of Melborne, e dai suoi collaboratori, ha riportato (su cento casi di Dravet analizzati: 61 femmine e 39 maschi) una mortalità del 15% entro dieci anni dalla diagnosi (età media di esordio delle convulsioni: 5 mesi). La cosiddetta “morte improvvisa nei pazienti epilettici” («Sudden Unexpected Death in Epileptic Patients», SUDEP) rappresenta il 59% delle cause di morte in questi pazienti, in età compresa tra i 2 e i 20 anni. Uno studio del 2011, apparso su Epilepsy a firma di medici francesi, statunitensi e canadesi, riporta che, tra gli 802 pazienti affetti da sindrome di Dravet allora viventi (51% maschi, 49% femmine), l’età media era di 7,7 anni, con il 90% di età inferiore ai 3 anni. La sopravvivenza e la mortalità variano però nelle altre forme PME, con un decesso che può sopravvenire prima dei due anni dall’esordio della malattia e fino a dieci ed anche oltre.
In tutte le forme di PME, al di là delle aspettative di vita, la letteratura medica è concorde nel riportare che i pazienti presentano una evoluzione del quadro clinico coerente con una grave neurodegenerazione, che in alcuni casi può dare luogo anche a una temporanea stabilizzazione, per poi esitare in una precipitazione delle condizioni del paziente. Le convulsioni risultano difficili da controllare, lo sviluppo psicofisico è ritardato, la mobilità ridotta, le capacità comunicative sono in diversa misura compromesse e in non pochi casi è richiesta un’assistenza delle funzioni fisiologiche con diversi supporti. Il trattamento è principalmente volto a controllare gli episodi convulsivi attraverso farmaci o combinazioni di farmaci, le cui dosi spesso devono essere innalzate con il progredire della malattia, in quanto la risposta ad essi decresce con il passare del tempo.
Tutto questo – sono considerazioni dal punto di vista tipicamente clinico – non autorizza nessuno a fare il “salto epistemologico” dal piano empirico della constatazione di una condizione patologica, pur grave e ultimamente mortale, a quello antropologico, etico e giuridico della “assenza di dignità umana”, dello “scarso valore della vita” e della “esistenza senza senso” per sé e i propri genitori di un bambino inguaribilmente (ma mai incurabilmente) malato. Ancor prima, è da rigettare – anche sul solo piano neuropsicologico – l’affermazione del giudice signora King, durante l’udienza per Alfie, che «è improbabile che [il bambino] provi dolore, ma tragicamente tutto ciò che potrebbe consentirgli un apprezzamento della vita è irrimediabilmente distrutto». L’inferenza dall’esame neurologico obiettivo o dalle immagini di risonanza magnetica nucleare funzionale (fMRI) e dal tracciato elettroencefalografico (EEG) di un simile giudizio antropologico richiederebbe ben altra robustezza teorica di pensiero e ben diversa discussione interdisciplinare di altissimo profilo neuropsicologico e filosofico rispetto a quanto traspare dagli atti processuali.
Cosa si sentirebbe di dire ai medici e ai giudici che si sono occupati sinora della vita e della morte di Alfie?
Da ricercatore biomedico che si occupa delle malattie umane, chiederei ai medici nelle cui mani è affidato il bambino Alfie il coraggio della umiltà, che sola rende davvero grande la statura di un uomo e di una donna di scienza e di medicina. L’immensa stima che i cittadini britannici (e non solo) desiderano riporre in voi, affidando alle vostre cure ciò che di più prezioso hanno – i loro figli malati – non diminuirà di un pollice, anzi ne risulterà fortemente incrementata, se avrete il coraggio di ammettere, nella misura in cui ve ne siano stati, degli errori nell’affrontare la vicenda clinica e umana di Alfie e del rapporto con i suoi genitori. Chi porta il camice bianco deve essere sempre disposto a sacrificare le proprie idee su un paziente se esse risultano contraddette dalla realtà della sua vita, che è più grande dell’idea che noi possiamo farci di essa. Il medico che non è disposto a cambiare le proprie idee di fronte alle evidenze, le sue ipotesi diagnostiche o terapeutiche, il suo modo di porsi dinnanzi al malato, non ama fino in fondo sé stesso, la propria fatica, la propria professione.
Come cittadino, inviterei coloro cui la società ha affidato il delicatissimo e importante potere giudiziario ad assumersi questa tremenda responsabilità con la stessa umiltà che suggerisco ai medici. Amministrare la giustizia non è applicare un algoritmo legale per la produzione di una sentenza, ma guardare negli occhi chi ha sbagliato e chi è stato corretto con lo stesso sguardo con cui si fissa sé stesso, la propria moglie e il proprio marito, i propri figli e i propri amici. Uno sguardo che unisce il rigore della norma con la clemenza dell’umano. Come sta scritto nel Vangelo, la legge è fatta per l’uomo, non l’uomo per la legge (cfr. Mc 2, 27). Dimenticarlo, significa produrre ciò che dice l’aforisma giuridico “Summum ius summa iniuria”, citato da Cicerone nel De officiis (I, 10, 33).
Infine, guardando a una terra dalle grandi tradizioni cristiane come è il Regno Unito e ai suoi abitanti, mi viene alla mente l’immagine di Gesù Medico delle anime e dei corpi e di Gesù Giudice giusto e misericordioso. Come si sarebbe chinato il Figlio di Dio su un malato inguaribile come Alfie? (lo ha fatto numerose volte, secondo il racconto dei vangeli). Come avrebbe affrontato la questione della sua consegna alla morte secondo la legge? Non ha forse liberato anche l’adultera dal giogo della sentenza senza appello cui l’avevano portata i suoi accusatori?
Foto Ansa
Exit mobile version