Carceri, Borgna contro l’ergastolo: «È un’eutanasia imposta da persone educate, civili, religiose»

Il grande psichiatra spiega alla Stampa perché il "fine pena mai" è per un uomo «la tortura maggiore: l’uccisione della speranza»

Per Eugenio Borgna l’ergastolo è una specie di eutanasia. In una bella intervista concessa a Michele Brambilla nell’ambito dell’inchiesta a puntate della Stampa sul mondo delle carceri, il grande psichiatra spiega perché il “fine pena mai”, uccidendo nell’uomo «la speranza», uccide di fatto l’uomo stesso.

IL PREGIUDIZIO CHE DISTRUGGE. Per Borgna infatti l’unico modo di “salvare” la persona nella sua integrità anche quando essa è colpevole, è la coscienza che «possiamo sempre cambiare». Comunemente, al contrario, il nostro sguardo verso i carcerati è reso orbo dal pregiudizio, «una forza distruttrice» che «ci porta a giudicare gli altri generalizzando i comportamenti di un certo momento». I carcerati, spiega Borgna alla Stampa, «hanno compiuto reati gravissimi, ma se voglio analizzare una persona, non posso partire dal reato che ha commesso. Metto tra parentesi quel fatto: non lo cancello, ma cerco di capire la persona com’è adesso. Una persona non è definita dal reato che ha commesso, anche se noi abbiamo la tendenza a pensare che invece sia così.

LA RINASCITA IMPOSSIBILE. Lo psichiatra ricorda che guardando ai carcerati «dobbiamo vedere la loro possibilità di ricreazione, o meglio di rinascita». Un discorso che varrebbe a maggior ragione per lo Stato, almeno sulla Carta (secondo la quale, in teoria, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», articolo 27). Borgna osserva, invece, che «così com’è adesso» il sistema penitenziario italiano «mostra di non credere che esista una possibilità di cambiamento». L’ergastolo, in particolare, «è il grande tema del tempo. Uno è divorato dal passato per il male che ha commesso, e questo brucia qualunque speranza di futuro. È un pericolo non solo per chi ha l’ergastolo».

UNICA VIA, IL SUICIDIO. Le prigioni «devono esistere», chiarisce Borgna. Il punto è quale «immagine della condizione umana» riflettono. «Se riteniamo che l’aver commesso un reato grave debba essere un “per sempre”, noi amputiamo il futuro. E senza il futuro c’è il suicidio. Quanti si chiedono il perché di tanti suicidi in carcere? È ovvio che ci possono essere varie concause, le condizioni di detenzione eccetera. Ma quello che fa decidere per il suicidio è il passaggio dalla speranza alla disperazione». L’ergastolo, ribadisce lo psichiatra, «è un’eutanasia imposta da persone educate, civili, religiose. Dal punto di vista psicologico, è forse la tortura maggiore: l’uccisione della speranza».

NON ESCLUDERE L’IMPOSSIBILE. Per fortuna esistono punti luminosi anche in questo quadro buio. Borgna racconta a Brambilla di avere «incontrato persone che hanno creato strutture di lavoro all’interno del carcere. Non so quali psichiatri avrebbero potuto fare cose come quelle che ho visto. Far lavorare persone che hanno avuto percorsi di quel tipo implica l’essere dotati di una visione dell’uomo e del mondo che non esclude mai le cose ritenute impossibili. Ed è giusto così, perché non si può escludere che anche nel cuore apparentemente più arido e sepolto si possano nascondere risorse che non ci immaginiamo». Di questo il maestro è tanto convinto da non temere di entrare nel paradosso: «Sono i reati più gravi che possono determinare le conversioni più sconvolgenti. Più grande è il male compiuto, più è possibile essere portati a rendersi conto del proprio errore. Allora accade una cosa terribile, è come una bomba atomica che distrugge l’uomo di prima e lascia aperte strade immense per ripartire».

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