«Beppe Sala? Un populista come Di Maio. Però “tecno”»

Intervista al consigliere milanese di opposizione Matteo Forte dopo la lite tra sindaco e vicepremier sulle chiusure domenicali. Bilancio di metà mandato

La rissa a distanza sulle chiusure domenicali tra il vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio e il sindaco di Milano Beppe Sala è stata subito enfatizzata da molti osservatori come emblema dello scontro in atto in Italia fra due civiltà: da una parte il progressismo borghese, e nordico-milanese in particolare, tutto lavoro e produttività, dall’altra il populismo becero interessato solo a sollecitare gli istinti peggiori degli elettori (la pigrizia, nella fattispecie). All’idea di imporre la chiusura domenicale a negozi e centri commerciali avanzata dal capo politico del M5s, sabato il primo cittadino meneghino ha risposto in maniera insolitamente rude: «Se la vogliono fare in provincia di Avellino la facciano, ma a Milano è contro il senso comune. Pensassero alle grandi questioni politiche, non a rompere le palle a noi che abbiamo un modello che funziona e 9 milioni di turisti». Il sindaco è arrivato a minacciare «un referendum o qualche forma del genere» in caso di approvazione di una legge in materia.

Di traverso si è piazzato il consigliere milanese di opposizione Matteo Forte, capogruppo di Milano popolare a Palazzo Marino, che prima in un post su Facebook e poi in un commento ospitato dal Giornale ha ricordato come Sala anziché polemizzare con Di Maio avrebbe dovuto «guardarsi in casa», perché «lo scorso primo ottobre, la sua maggioranza, con le stesse motivazioni usate da Di Maio per rispondere proprio all’inquilino di Palazzo Marino, ci ha propinato (e votato!) la mozione n. 297 che stila un calendario con l’elenco di giorni in cui i negozi dovrebbero stare obbligatoriamente chiusi».

Ecco, in questa ostentata contrapposizione fra due «modi di intendere la società» (per usare le parole dello stesso Sala), secondo Forte emerge più analogia che differenza. Sono due populismi che si guardano allo specchio. È questo il bilancio di metà mandato tratto per Sala dal consigliere milanese.

Consigliere Forte, perché proprio nella polemica sulle chiusure domenicali lei nota una analogia tra il «modo di intendere la società» dei grillini e quello di Sala?
Perché nel caso in questione l’unica differenza tra la maggioranza che governa Milano, il centrosinistra, e la maggioranza di Roma sarebbe nel chi decide quando far chiudere i negozi. Chi amministra invece dovrebbe dettare dei criteri (per esempio un numero di giorni in cui chiudere, o il rispetto della libertà religiosa), poi sulla base di questi tocca alle parti sociali, imprese e sindacati, mettersi d’accordo, decidere. Ma questa idea di società qui non c’è. C’è semplicemente l’idea che anziché decidere nel chiuso del palazzo di Roma si deve decidere nel chiuso del palazzo di Milano.

Uno statalismo decentralizzato?
Io l’ho definito una diversa sfumatura di dirigismo centralista.

Lei nota una specularità tra opposti anche sul tema della giustizia. Ci spiega?
Beh, sulla giustizia c’è la gara a chi è più forcaiolo. Sul giustizialismo dei 5 stelle non c’è bisogno di dilungarsi. Su Milano, basta pensare alla vicenda dello stesso Sala. Dicembre 2016: il Fatto quotidiano annuncia che potrebbe arrivare un avviso di garanzia al sindaco, e il sindaco che fa? Si autosospende. Cioè si inventa un istituto giuridico che non esiste, arrendendosi a una aggressione giustizialista. Di fatto permettendo che la vita istituzionale della città fosse condizionata da altri poteri.

Ha in mente esempi più recenti?
In questi giorni è scoppiato il caso del comandante dei vigili Marco Ciacci, che a detta del suo predecessore Antonio Barbato è «uomo gradito alla procura». Ebbene, veniamo a sapere che l’altro giorno Ciacci si è precipitato sulla scena di un grave incidente stradale: accusata di averlo causato era la figlia dei due magistrati Ilda Boccassini e Alberto Nobili. Il comandante si è presentato sul posto prima delle pattuglie, col padre della ragazza. A chi risponde il capo dei vigili?

Ma cosa c’entra Sala?
C’entra perché l’ha scelto lui. Ciacci è l’ex vicequestore che ha fatto partire il caso Ruby, ha collaborato con la Boccassini che tra l’altro è stata titolare delle indagini che hanno coinvolto (pur senza iscriverlo nel registro degli indagati) proprio l’ex comandante dei vigili… Allora domando: a chi risponde? Perché è lì? Poi c’è il tema di Gherardo Colombo.

Già, il presidente del “comitato per la legalità, la trasparenza e l’efficienza amministativa”.
Ovviamente, poiché il parametro è il legalismo, quel comitato finisce per fare le pulci anche alla “sua” giunta, dimostrando, per esempio, che il famoso piano per le periferie su cui si gioca la faccia Sala non esiste.

Non è un merito nominarsi un “controllore” scomodo?
Il sindaco è legittimato dal voto popolare. Se infrange le regole, ci sono altri poteri costituzionalmente previsti che sono chiamati a sanzionarlo. Per il resto è legittimato dagli elettori. Esistono già anche meccanismi di bilanciamento del potere, a partire dalla dialettica maggioranza/opposizione. Aggiungendo all’amministrazione comitati, sottolivelli, strati composti da gente “esterna” si complicano solo le cose. Si immettono criteri che non sono propri della politica.

Per esempio la subordinazione alla magistratura, a cui si lascia la parola ultima su tutto.
Altro esempio. Bisognava rinnovare le concessioni degli spazi nella Galleria Vittorio Emanuele. Sala ha deciso di scrivere a Cantone: cosa dobbiamo fare? Riconosciamo un diritto di prelazione a chi c’è già? Privilegiamo i marchi storici o che? Risposta di Cantone: in linea di massima è sempre preferibile il bando, dopo di che chi amministra gode di un discrezionalità politica che a seconda delle situazioni gli permette di decidere, nell’ambito della legalità. Avrei potuto scriverla anch’io! Alla fine la giunta ha scelto la via del bando di gara, facendo cadere eventuali diritti di prelazione, “perché ce lo dice Cantone”. Sala non si prende la responsabilità politica delle scelte. La fanno prendere ad altri organi che però non sono politici.

A conferma della specularità tra il centrosinistra milanese e il populismo romano lei cita anche l’episodio del bambino fatto registrare in anagrafe come figlio di due uomini, nonostante la contrarietà e la richiesta di discussione da parte di alcuni consiglieri della maggioranza. Lei paragona il sindaco a «un Casaleggio qualunque che pontifica sull’inutilità delle assemblee elettive». Ma almeno in questo caso una responsabilità politica Sala se l’è presa, no?
La verità è che Sala è quasi sollevato che sia stato un tribunale a dirgli cosa fare. Anche in questa vicenda. Mi dicono di trascrivere all’anagrafe un bamino come figlio di due padri? Perfetto, io eseguo. E cosa vuole il Consiglio da me, ora che ci sono una sentenza, le carte bollate, i timbri? Perché ci deve essere una discussione politica? Questa è la domanda che si fa Sala, ed è il vero punto.

Perché lo definisce tecnopopulista? Cosa significa?
Tecnopopulismo è proprio la assenza di responsabilità politica nelle scelte. Il tecnopopulista non rispondere politicamente delle sue scelte, applica delle procedure, delle sentenze, delle tecniche imposte da autorità esterne. Questo per quanto riguarda il “tecno”. “Populista” perché in fondo condivide con l’antipolitica l’idea che le assemblee rappresentative, i partiti, i dibattiti politici sono inutili liturgie che fanno perdere di vista l’efficienza, il “fare” nel senso brutalmente pragmatico del termine. Il governo della cosa pubblica come problem solving. Non esistono più destra e sinistra, non esistono più differenze culturali, esiste il fare. Riaffermare il primato della politica è una perdita di tempo. Posso aggiungere una citazione in proposito?

Citi pure.
Benedetto XVI, Caritas in veritate: «Non basta il mero fare, ma occorre un’intelligenza in grado di pensare il senso pienamente umano del fare dell’uomo». Il dibattito politico dovrebbe servire a questo.

Milano, però, a differenza del resto d’Italia sembra andare ancora in controtendenza rispetto alla rotta della “decrescita felice” e del “no tutto”. Questo non è un merito che va riconosciuto a Sala, in un bilancio di metà mandato?
Direi che il merito ce l’ha Milano. Milano è ontologicamente per la crescita felice. Sala si limita a non ostacolare un percorso che va avanti naturalmente. Detto questo, la giunta Pisapia e la giunta Sala non hanno messo in cantiere nulla. Perciò oggi vediamo ancora gli effetti delle grandi trasformazioni avviate dalle giunte Albertini, ma tra venti-trent’anni non vedremo nulla.

Exit mobile version