«Benedetto XVI, Papa del dialogo: pianto da israeliani e palestinesi»

«Il suo viaggio in Terra Santa del 2009, nel quale affrontò la diffidenza di ebrei e musulmani, è ricordato come un momento di importanza storica». Parla Giancarlo Giojelli, corrispondente Rai da Gerusalemme

Ricordando il Papa emerito Benedetto XVI, in questi giorni tutti, anche chi lo ha criticato e osteggiato quando era in vita, lo ricordano innanzitutto come un grande teologo. Non manca però chi sottolinea una presunta personalità divisiva di un pontefice pacato nei toni ma saldissimo nella dottrina e dunque poco incline al dialogo. Tempi ha chiesto a Giancarlo Giojelli, storico inviato e corrispondente della Rai da Gerusalemme, come viene ricordato in queste ore in Terra Santa, luogo di divisione e contrasti per antonomasia.

Ha ragione chi parla di Benedetto XVI come dell’opposto di una personalità del dialogo?

È esattamente il contrario. Basti pensare al suo viaggio in Terra Santa nel maggio del 2009, quando arriva sapendo di dove affrontare la diffidenza del mondo ebraico e musulmano: critici gli ebrei nei confronti di un Papa tedesco che aveva voluto riallacciare i rapporti con i tradizionalisti lefevriani, ritenuti negazionisti dell’Olocausto, come il vescovo Williamson; ancora più critici i musulmani dopo il discorso di Ratisbona visto come una grave offesa a Maometto e a tutto l’Islam. Eppure quel viaggio, in una terra dove pesano anche le divisioni fra i cristiani, viene oggi ricordato come un momento di importanza storica nel dialogo tra le religioni abramitiche.

Perché?

Ratzinger rispose alle critiche nel suo stile, con toni pacati, senza alzare la voce e con gesti dal forte significato simbolico. Nello stesso giorno entrò nella moschea della Rocca, terzo luogo sacro all’islam, andò al muro occidentale, il Kotel, quello che in Europa viene chiamato muro del pianto, santo agli ebrei, celebrò messa nella valle di Josafat, davanti al Getsemani: invitò i credenti nell’«Unico Dio» a vincere «l’odio, la diffidenza, la rabbia, il desiderio di vendetta», riprendendo l’appello fatto da Giovanni Paolo II che aveva detto che la pace si deve fondare sul perdono. Entrò nel Santo Sepolcro. Pregò in silenzio, da solo, davanti alla lastra di marmo che per tutti i cristiani, cattolici e ortodossi, è il luogo della Resurrezione. Visitò lo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, dove condannò senza mezzi termini lo sterminio degli ebrei. Andò al campo profughi palestinesi di Betlemme invocando pace e giustizia, pace nella giustizia. Betlemme, disse, è il luogo di una grande e magnifica promessa di rinnovamento, di luce, di libertà ma è una promessa che attende di essere compiuta.

E dopo quel viaggio?

Pochi mesi prima di lasciare il pontificato, nel settembre del 2012, firmò a Beirut l’esortazione apostolica sulla comunione tra i cristiani, Ecclesia in Medio Oriente, una pietra miliare nel dialogo ecumenico. Il patriarca latino, Pierbattista Pizzaballa, ricorda quanto Ratzinger sia stato molto amato dalle Chiesa orientali, che si riconoscono nel suo linguaggio e nel suo riferimento a Dio. Per il Custode di terra Santa, padre Francesco Patton, Benedetto XVI incarnò la beatitudine «beati i miti perché erediteranno la terra».

E come è stato visto dalle parti in conflitto, da israeliani e palestinesi?

È un fatto significativo che una valutazione identica sia arrivata da due leader tra loro conflittuali (e qui quando si dice “conflitto” non si tratta di parole, il conflitto è un fatto reale, questo è stato l’anno con il più alto numero di vittime dal 2007). Eppure sia il premier israeliano Benjamin Netanyahu sia il presidente palestinese Abu Mazen ricordano quel viaggio del 2009 come un momento fondamentale del dialogo per la pace. Per il premier Israeliano Netanyahu Ratzinger si dimostrò «un vero amico di Israele, un grande leader spirituale impegnato con tutto il cuore nella riconciliazione tra la Chiesa e il mondo ebraico», e i media di Gerusalemme sottolineano la ferma condanna che fece dell’olocausto e delle teorie negazioniste. Il presidente palestinese Abbas ricorda: «A Betlemme Benedetto ha espresso la sua solidarietà e il suo sostegno per la libertà e l’indipendenza del nostro popolo nello stato palestinese». Ratzinger insomma qui riuscì a parlare a tutti, trovando per tutti il linguaggio diretto per parlare al cuore. E il primo linguaggio fu la sua presenza fisica.

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