L’avventura educativa di Ludovica, fondatrice di una scuola «omniamente secolare e libera» da 500 anni

Storia della contessa di Guastalla e della nascita del suo Collegio per fanciulle "pericolanti", uno degli istituti più antichi del mondo. Cattolico, laico, libero da cinque secoli

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ospitare una mostra storico-artistica in una scuola non è cosa solita, difficile trovare un istituto scolastico di cui si possa percorrere l’itinerario della sua nascita ed evoluzione lungo l’arco di quasi 500 anni. Il Collegio della Guastalla, che dal 1938 ha sede a Monza, è nato a Milano, esattamente l’1 novembre 1557, e risulta essere una delle scuole più antiche del mondo. Ancor più difficile è trovare un archivio storico ben fornito e conservato, con dipinti e opere d’arte che fanno parte del suo patrimonio. E che ricostruiscono un interessante spaccato della vita particolare di una scuola, le ore di lezione del 1565 e quelle del 1800, i nomi delle prime governatrici e la richiesta di tesseramento al partito fascista per la direttrice Lucilla Cicuta nel 1935.

Per chi ha in mente i deliziosi Giardini della Guastalla di Milano, prima sede del Collegio, c’è un documento che indica le spese sostenute dagli amministratori nel 1640 per realizzare la peschiera che ancora oggi ammiriamo. Peschiera che ci parla della Milano sulle acque, quando via Francesco Sforza e tutta la circonvallazione interna di Milano erano il Naviglio Grande e il Collegio, con i pesci allevati in peschiera e le derrate alimentari che arrivavano via navigli dai suoi terreni fuori città, era assolutamente autonomo dal punto di vista alimentare. Un’autosufficienza alimentare che ha conquistato Expo 2015, che ha deciso di patrocinare la mostra.

Ma le carte, allargando sempre più il raggio della nostra vista, ricostruiscono anche i rapporti del Collegio con le istituzioni e i vari governi che si sono succeduti a Milano per quasi cinque secoli, dalla dominazione spagnola a Napoleone, dall’impero austro-ungarico al re d’Italia. Dai privilegi concessi da Carlo V ai tentativi di intromissione dei poteri politici nella gerenza dell’istituto, a quelli di appropriazione, a volte riuscita, di beni e terreni (il Collegio è «omniamente secolare e libero», si rispose a Napoleone nel 1796, quando l’imperatore richiese tutti gli argenti a monasteri e luoghi gestiti da cattolici). Il Collegio come una navicella ha cavalcato le difficili onde del tempo, forte dell’intuizione iniziale di colei che lo fondò, e che lo volle cattolico, laico e libero. Ma chi era la fondatrice del Collegio, Ludovica Torelli, contessa di Guastalla?

In occasione della mostra, ne abbiamo raccontato la storia in un libro adatto a ogni tipo di lettore, dai 7 ai 99 anni, scritto in italiano e inglese, che si intitola La grande avventura di Ludovica, contessa di Guastalla. Ludovica Torelli, contessa di Guastalla, era notissima tra i circa 80 mila abitanti della Milano del 1500, abituata al comando, tratta con papa Paolo III, con i re di Spagna Carlo V e Filippo II, con la famiglia Gonzaga e due santi, sant’Antonio Maria Zaccaria e san Carlo Borromeo. Tale è stato il lustro civile dato a Milano, che la città le ha dedicato la via della Guastalla, l’omonima piazzetta, la via della Signora e i più graziosi giardini che la città possiede: “I Giardini della Guastalla”.

Al tempo stesso, benché di casa alla corte di papi, re, principi e duchi, sorprende il suo deciso impegno per il popolo e il forte e cattolicissimo carisma educativo. Con la sua considerevole fortuna creò opere in favore delle donne, un nuovo ordine religioso femminile, le Angeliche, e il “Collegio della Guastalla”, in favore di giovani «ben educate ma povere», cui dedicò l’ultima avventura della sua vita, e che mise in condizione, con mescolanza di cristiana passione educativa e laica lungimiranza, di arrivare fino a noi. Una delle più antiche istituzioni educative laiche d’Europa, probabilmente la più antica scuola per ragazze al mondo.

Il libro è composto da una lunga lettera, quasi fosse scritta dalla stessa contessa a Cecilia, una bambina del Collegio. Racconta la storia avventurosa di una donna del Cinquecento. È una lettera come le numerose presenti in archivio, con una timeline storica e qualche approfondimento dovuto. Di seguito ne riproponiamo una parte.

La festa dopo la Quaresima
È quasi l’alba. Nel salone vuoto riecheggiano lontani gli scoppi di risa degli ultimi ospiti, che lasciano il palazzo barcollando lungo il corridoio e giù per le scale. È scorso parecchio vino questa notte. Coppe e coppe sciabordanti, che hanno reso le danze chiassose e i cavalieri irriverenti nel dimostrare alle dame il proprio apprezzamento (…). I musicisti stanno riponendo i loro strumenti. I servitori rassettano e raccolgono in enormi ceste il cibo avanzato sulle tavole e quello abbandonato sotto le panche e negli angoli del pavimento. Mi sono trattenuta nella grande sala, contravvenendo a tutte le norme di decoro. Sono stanca, in disordine, ma non ho voglia di tornare nei miei alloggi (…).

La Solitudine, cara Cecilia, mi sembrava, in quei giorni, una compagna insolente, che si permetteva di rinfacciarmi la vacuità degli abiti sfarzosi che troppo presto avevano sostituito il lutto. Stava in agguato. Attendeva il favore della notte per sorprendermi e accusarmi di pigrizia, perché la mia vita si era adagiata negli ozii, e arrivava a insinuare che ci fosse della leggerezza nella mia condotta! Avevo deciso semplicemente di sfuggirle. Posso dirti, però, che ugualmente non ero felice.

Ero ancora seduta sul davanzale della grande finestra che affaccia sul bel frutteto di Guastalla e osservavo il vecchio melo emergere lentamente dall’oscurità, assorta in chissà quale pensiero, quando mi si fece appresso il maggiordomo di palazzo. Avevo dimenticato cosa fosse accaduto durante la festa. Qualcuno aveva accennato agli impegni quaresimali assolti nelle settimane precedenti. Oltre a lamentare la noia che ben quaranta giorni senza ricevimenti o svaghi ufficiali avevano arrecato, più di una dama si sentiva ancora mancare al ricordo delle lunghe funzioni cui aveva dovuto partecipare, in ore afose e scomode della giornata, a rischio, dato il caldo anticipato di quell’anno, di svenire tra le panche della vecchia Pieve di Guastalla.

«Il domenicano non ci ha certo risparmiati!», aveva commentato una di loro riferendosi a fra Battista. «Le sue omelie sono state commoventi, sia chiaro! Così ispirate. Ma non smetteva mai di parlare! E poi non fa che redarguire! Al limite dell’impertinenza!». In molti avevano appoggiato la mozione. Sembrava non aspettassero altro che un’occasione per esprimere il proprio scetticismo sulle capacità di fra Battista, sull’opportunità delle sue continue reprimenda e sulla sfrontatezza con cui in più circostanze aveva assunto posizioni contrarie agli interessi dei presenti (…). «In fondo questa è casa tua, cara Ludovica – dicevano –. Non credi che quell’uomo sia un po’ troppo invadente?». Ed io avevo fatto quello che tutti a quel punto si aspettavano da me: avevo ordinato al maggiordomo che si occupava di queste faccende di fare i conti col frate cappellano e di rimandarlo al suo monastero. Ora il maggiordomo era venuto a riferire di aver trovato fra Battista già sveglio per assolvere agli uffici della mattina, di aver trasmesso i miei ordini e di aver ottenuto un rifiuto. Non solo, fra Battista lo aveva seguito, attendeva in corridoio di essere ricevuto e pretendeva delle spiegazioni. Un contegno così sfrontato, come puoi ben immaginare, mi sconcertò, Cecilia! Ma ancora non conoscevo a fondo fra Battista, che era nell’aspetto un omino scialbo, ma capacissimo di gesti coraggiosi e tutt’altro che insignificanti. Mi si parò innanzi guardandomi dritto in faccia, senza pudore, ma anche senza alterigia, e in un attimo capii cosa aveva tanto infastidito i miei nobili amici, più, ne sono certa, di qualsiasi sermone: la sua fermezza, che era generata da un ardore che non mi spiegavo, ma mi affascinava! (…).

Un segno chiaro dello Spirito
Eccoci quindi all’inizio del 1530. Questioni legate al governo del mio feudo mi chiamavano a Milano e fra Battista si rese disponibile ad accompagnarmi, poiché, come mi spiegò quando fummo sotto l’arco di Porta Romana, egli era certo di poter leggere in quella circostanza un limpido segno dello Spirito: nulla avviene a caso e la città dei Duchi, crocevia di interessi per le grandi dinastie europee, era in quegli anni raggiunta con sconcertante rapidità dalle provocazioni di quel Lutero che nella fredda Worms, dinanzi all’imperatore Carlo V, solo nove anni prima, aveva avuto l’ardire di negare l’autorità del discendente di Pietro. La Chiesa milanese poteva d’altronde contare solo sulla debole guida dell’arcivescovo Ippolito II d’Este, un ragazzino di poco più di dieci anni, completamente assorbito da interessi mondani. A questo si aggiungevano i rivolgimenti politici in atto, che creavano nuova povertà e smarrimento. Quindi era lì che il Signore ci chiamava ad agire, non v’erano dubbi. (…).

Ci balzò subito agli occhi come fossero molte le giovanissime “pericolanti”, che la mancanza di una dote esponeva a matrimoni tristi o alla perdizione. Ne incontravamo a decine: avevano bisogno di un luogo che ne promuovesse la maturazione e l’inserimento sereno nella comunità e, cosa ancor più sorprendente quando noi stesse la realizzammo, la comunità aveva bisogno di loro! Ecco cosa avremmo fatto: un Collegio per fanciulle disposte con la purità del cuore a ricevere la forma delle belle virtù! Misi a disposizione del progetto quanto rimaneva delle mie sostanze, che non era poco. Acquistammo il terreno necessario nel quartiere di Porta Romana. Non ci sarebbero state celle nel nuovo edificio, ma ampie stanze in cui le ragazze avrebbero imparato a leggere, a scrivere, a ricamare, a godere di quelle oneste ricreazioni che non facessero loro rimpiangere la casa paterna. Lì avrebbero soprattutto vissuto nella sequela di donne virtuose, in un rapporto individuale, fino all’età di ventun’anni, quando ad ognuna sarebbe stata corrisposta la cifra ragguardevole di 2.000 lire imperiali, perché ne disponesse come dote per intraprendere liberamente la vita matrimoniale o quella religiosa. Di una fanciulla, infatti, per farne una donna non è sufficiente nutrire il corpo in modo equilibrato e la mente in modo creativo, ma bisogna anche e soprattutto nutrire il cuore, alimentare il desiderio e sostenere la libertà.

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La mostra storico-artistica “Bellezza del sapere, bellezza del fare. Vita, arte e cultura al Collegio della Guastalla dal 1557 ad oggi” sarà inaugurata il 28 maggio alle ore 18 e sarà visitabile fino a fine ottobre nella sede del Collegio, viale Lombardia 180, Monza. Per informazioni guastalla.org

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