Il governo Draghi gestisce in perfetta continuità con il precedente governo Conte la pandemia Covid-19. Questo è il desolante dato di fatto. Che induce diversi pensieri.
Se di Conte ero profondamente critico per il “tradimento” rispetto a ogni regola di crisis management, non posso che essere altrettanto critico con Draghi e il suo contorno. O meglio: la gestione conferma il vecchio assunto per cui una emergenza offre tutte quelle opportunità conseguenti un mutamento rapido non richiesto. Il che significa, nello specifico, che l’opportunità è stata colta se non per gestire la crisi con efficacia nei confronti delle vittime, certamente per orientare le conseguenze per l’interesse di chi si è alternato alla responsabilità di governo. Dunque, il risultato operativo è negativo e colpevole per entrambi.
Infatti, la discontinuità Conte-Draghi si è manifestata sul piano della narrativa: sia quella mediale, con un mainstream che si è rapidamente riallocato a servire il “turnista”, sia quella istituzionale, che ha mimetizzato la continuità con il cambio di rappresentazione del primo ministro (nei gesti, nella postura, nell’atteggiamento…). Il Parlamento, d’altra parte, ha continuato a fare il nulla, scambiando alcune poltrone o seggiole o divani tra gli habitués.
In sostanza, la discontinuità di persone e sigle è stata un’apparenza, non determinante alcun cambio di passo operativo, dimostrando come la politica (quella seria del dialogo e del confronto) sia ormai sparita alla luce degli interessi condivisi tra tutti i banchettanti.
Ma soprattutto, non è cambiata la visione di governo che vede nel cittadino un irresponsabile non affidabile, e che non riconosce nella istituzione l’incapacità che la contraddistingue e che, dunque, la porta a scaricare sul cittadino stesso le sue incompetenze.
Perché questo è il coprifuoco: l’imposizione di un orario alle attività quotidiane. Perché questo è ogni limitazione di movimento personale. Perché questo è la chiusura degli esercizi pubblici.
Ciascuno dei divieti di cui sopra, ammettendo che impedisca pratiche significative per il contenimento del virus (questione che non affronto), implica contemporaneamente due ragioni.
La prima è che il cittadino non è in grado di autoregolarsi, assumendo quegli atteggiamenti responsabili che promuovono la sicurezza individuale e, di conseguenza, quella collettiva.
La seconda è che, considerata la prima ragione, le istituzioni non sono in grado di esercitare la conseguente necessità di controllo e repressione dei comportamenti devianti.
Le mie considerazioni non discutono la giustezza di quanto sopra né la legittimità dell’esercizio del potere – ammettiamo di essere tutti d’accordo sulle deleghe date in tal senso – ma tirano solo evidenti conseguenze operative.
Ai governi è stato semplicemente più facile vietare (ogni apertura, ogni spostamento) per mancanza di capacità a esercitare il controllo legittimo sul rispetto delle norme e per sfiducia nei propri cittadini.
Non credo si possa scappare da queste valutazioni.
È desolante, perché ancor più di ogni ruberia si (auto)sancisce una casta divina, di eletti narcisisti, che abbandona ogni responsabilità coscienziosamente assunta nei confronti dei propri cittadini: ben altro da loro!
E ancor più desolante perché la mala gestione della pandemia ha definitivamente ammazzato, insieme a tanti italiani, quel poco di governo della cosa pubblica che restava. È vero: il dopo non potrà essere più come prima. Il come sarà non è ancora stato deciso.
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Marco Lombardi, autore di questo articolo, è direttore del dipartimento di Sociologia e del centro di ricerca Itstime dell’Università cattolica del Sacro Cuore
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