Una settimana da direttore-candidato

La politica, specie quella in cui non conta la fama ma solo la preferenza del popolo, è una fatica che espone alla nudità. E costringe a cercare “presenze”

 

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – In questa prima settimana da direttore-candidato alle elezioni amministrative, sono costretto a scoprire la natura per nulla scontata del rischio e dell’opportunità di ciò che ho approssimativamente descritto come “un’uscita di casa” per sostenere il candidato sindaco Stefano Parisi.

Rischio: una cosa è parlare di tori, come il mestiere giornalistico richiede, spaziando dalla cronaca al commento, dall’intrattenimento televisivo ai social network. Un’altra è scendere nell’arena. Che si eserciti il duro mestiere del cronista o quello più morbido del commentatore; si sia “criceti” dell’online o “tronisti” della tv camuffata da news, come diceva un direttore del Corriere della Sera, «il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare». Cosa vuol dire che fare il giornalista «è sempre meglio che lavorare» secondo il paradosso barziniano, lo capisci appunto quando devi lasciare la corazza della professione e metterti a “lavorare” nel senso di iniziare qualcosa che non hai mai fatto prima in vita tua. E questo qualcosa è che, mentre da giornalista tu arrivavi da qualche parte, incontravi persone e scrivevi certe cose, e poi mollavi tutto lì, per passare ad altre faccende e persone, adesso devi stare e agire in presenza di quei fatti e di quelle persone lì. Candidarsi in politica, specie in quella più ardua che non ha ritorni di notorietà e dove non l’arruffianarsi il capo di partito, ma solo la “preferenza” del popolo conta e decide il tuo destino, perbacco, questo è un lavoraccio che ti espone alla completa nudità.

E allora, tanto per cominciare, succede che quando per motivi giornalistici incontri una Luisa Muraro, comprendi anche l’opportunità offerta dalla discesa nell’arena. Ad esempio, nel mio caso, ti confermi nella convinzione che tutti – e specialmente i manager – sono capaci di scrivere un bel programma e promettere le più belle soluzioni per una grande metropoli come è Milano. Ma promettere è una cosa, essere presenza è un’altra. Dunque, iniziare in politica, per me significa identificare e ritornare a quelle presenze – a quelle persone – in cui mi sono imbattuto come protagonisti vivi della città. Significa lavoro per fare “il programma” di Cristina e delle sue amiche mamme a cui il Comune non ha mantenuto la promessa di rimettere a posto una scuola diventata fatiscente. Significa ricominciare dai ragazzi che eravamo in quel della Zona 2, allorché, direbbe la Muraro, incontrammo una «grandezza assoluta» che ci fece essere protagonisti di scuole e cooperative, di accoglienza familiare e di solidarietà sociale.

D’altra parte, dopo aver tanto chiacchierato di tori, uno prova ad andare in corrida. A costo di mettere a rischio anche la pelle. E così, come nel giornalismo ma più che nel giornalismo, uno comincia a scoprire che sì, «la prima politica è vivere» come dicevamo una volta. Ma nel senso del tendere a consumarsi, con e per gli altri, fino alle suole delle scarpe.

@LuigiAmicone

Foto Ansa

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