Altro che censura, Via col vento meriterebbe una statua liberal

Il romanzo è stato scritto da un'emancipata cattolica femminista e benedetto dal vescovo afroamericano più progressista.

Adesso tutti vantano un master in Via col vento, molti hanno vomitato bile sul suo razzismo ora esplicito ora ridotto a tappezzeria sul set di un melodramma sentimentale. Ma quanti sanno che i diritti del romanzo di Margaret Mitchell, che ha ispirato l’omonimo film di Victor Fleming, sono stati ceduti all’arcidiocesi di Atlanta per aiutare poveri, immigrati e rifugiati? E chi ricorda che a magnificare l’opera per cui si invoca la più feroce (e inutile) delle censure politicamente corrette è stato l’arcivescovo afroamericano più caro ai liberal e inviso ai suprematisti americani? E perché trattare come una donnetta impigliata nella retorica tutta galantuomini e campi di cotone una come Margaret Mitchell?

LO SDEGNO DEI SALOTTI

Partiamo da lei, una giornalista che col suo “romanzetto sentimentale” ci vinse anche il Pulitzer per la fiction nel 1937 e fu candidata al Nobel per la letteratura l’anno dopo. Il libro uscì il 30 giugno 1936: in sole quattro settimane riuscì a vendere quasi 180 mila copie, in sei mesi un milione, rimase in cima alla classifica dei bestseller per venti mesi consecutivi e nel ’39, anno in cui furono ceduti i diritti cinematografici, le copie vendute superavano i due milioni. «Era il suo omaggio al Deep South; un lamento per aver perso la guerra civile e i suoi schiavi. Suo nonno ha combattuto per i Confederati. Non le fu neppure detto che il Sud perse la guerra fino a quando non aveva 10 anni» racconta disgustato il Telegraph, auspicando che dopo averlo messo in quarantena, HBO non si sogni di riproporre la visione del film tratto dal romanzo di Mitchell senza una bella introduzione di «uno storico nero, dopo la quale sarà impossibile godersi il film».

LA MAMMA SUFFRAGETTA CATTOLICA

Eppure Mitchell, classe 1900, sangue irlandese per parte di madre, figlia di un avvocato, Eugene Mitchell, presidente della Atlanta Historical Society, e di una suffragetta cattolica, Mary Isobel (May Belle) Stephens, tra le fondatrici della League of Women Voters in Georgia ma anche della Catholic Laymen’s Association of Georgia, un gruppo che difendeva i cittadini cattolici ed ebrei dello stato dal fanatismo del Ku Klux Klan, non fece altro che fare il suo mestiere, e se del suo libro si dice oggi “era suprematista già ai tempi”, il suo profilo umano avrebbe fatto invidia alla giornalista più progressivamente aggiornata.

STORIE DEI VETERANI E PANTALONI DA MASCHIO

Da bambina trascorreva le domeniche pomeriggio in visita da parenti e amici, dove veterani di guerra raccontavano di eroiche battaglie e ritirate, senza omettere alcun truce dettaglio. Quanto alle donne dei confederati rimaste a casa, Mitchell ne aveva una a un tiro di schioppo: l’insopportabile nonna Annie, che aveva spedito sua madre May Belle a frequentare le scuole di perfezionamento in Quebec facendole capire in fretta cosa significasse essere discriminati in quanto figli di immigrati irlandesi in terra americana. La piccola era arguta e intraprendente: uscì illesa dal suo primo incidente a tre anni, quando un lembo della gonnella le andò a fuoco e la mamma, per paura che rischiasse finire arrostita un’altra volta, iniziò a infilarle dei pantaloni da maschio. Sembrava un personaggio dei fumetti, Little Jimmy, e “Jimmy” si fece chiamare Mitchell presentandosi a tutti come un maschiaccio fino all’età di 14 anni, quando per tutti diventò “Peggy”.

FEMMINISMO, PUGILI E “ACCIDENTI!”

Ancora bambina sventolava il cartello “Voto alle donne” in manifestazione con sua madre (Carrie Chapman Catt, leader del movimento nazionale per il suffragio femminile, ha persino definito Margaret «la più giovane suffragetta della Georgia»); e ancora bambina assistette alle sanguinose sommosse contro i neri di Jackson Hill: si era sparsa la voce che gli afroamericani avessero aggredito delle donne bianche e per giorni la sua città natale precipitò nel caos. La famiglia si trasferì ad Atlanta, Mitchell lesse tutti i libri dell’epoca, crebbe insubordinata al padre bacchettone (annotava nel diario: «Se fossi un maschio tenterei con West Point, oppure farei il pugile professionista – qualsiasi cosa che mi possa dare un’emozione»), si diplomò al Washington Seminary («che nei suoi annuari – racconta un bel ritratto di Fondazione Mondadori – la descrive in questi termini: “un’energica giovane donna. Aspetto: spavaldo; hobby: gli aviatori; idiosincrasia: verso chi non veste la divisa; espressione preferita: accidenti!; la più grande ambizione: liberarsi di loro con un sorriso”»). Emancipata, volitiva e arguta («sono una di quelle ragazze coi capelli corti, le gonne corte e la testa dura che, secondo i preti, sarebbero finite impiccate o all’inferno prima dei trent’anni»), iniziò a studiare medicina, s’innamorò di un giovane ufficiale che morì sul fronte francese, diede scandalo in società ballando il tango, ascoltando jazz, flirtando senza scrupoli durante party chiassosi, pianse la perdita dell’amata madre, uccisa dalla spagnola.

“PER L’AMOR DEL CIELO, PEGGY, NON PUOI SCRIVERE?”

Abbandonò gli studi, iniziò a collaborare con l’Atlanta Journal, suscitò polemiche con i suoi articoli a base di ritratti di donne forti e impegnate in politica, sposò l’atletico e ribelle Berrien Kinnard Upshaw, detto Red, col vizio dell’alcol, di contrabbandare bottiglie in pieno Proibizionismo, e di alzare le mani. Divorziò, causa ripetuti abusi sessuali domestici e troppi lividi, e si risposò col suo migliore amico e testimone di nozze, l’ex giornalista John Marsh: fu lui a chiederle, mentre lei era costretta a letto da settimane a causa di una frattura alla caviglia, «per l’amore del cielo, Peggy, perché non puoi scrivere un libro invece di leggerne a migliaia?». Le portò una macchina da scrivere. E Via col vento nacque così. La sera dell’11 agosto 1949 Peggy – dopo una Seconda guerra mondiale trascorsa a far la volontaria alla Croce rossa e scrivere lettere brillanti per risollevare il morale delle truppe al fronte -, venne investita da un ubriaco al volante mentre andava al cinema col marito: perse conoscenza nell’impatto e morì cinque giorni dopo, il 16 agosto, in un letto d’ospedale. Marsh la seguì poco dopo. Ma il romanzo continuò a fruttare alla famiglia decine di milioni di dollari.

LA BENEDIZIONE DELL’ARCIVESCOVO AFROAMERICANO

In molti si sono chiesti cosa ne avrebbe fatto di tutti quei soldi Joseph Mitchell, nipote di Margaret, quando morì suo fratello Eugene e rimase l’unico superstite della famiglia: Joseph era anziano, non aveva figli, nessuno sapeva chi potesse essere il futuro erede del cospicuo patrimonio. Cattolicissimo e fedele alle Messe della cattedrale di Cristo Re ad Atlanta, quando morì, nel 2011, a 76 anni, lasciò tutto, proprietà, patrimoni, nonché la metà dei proventi dai diritti letterari su Via col vento, all’arcidiocesi, con la preghiera che l’eredità dei Mitchell fosse destinata alla ristrutturazione della cattedrale, opere di fede e di beneficienza. Un’eredità tra i 15 e i 20 milioni di dollari. «La nostra diocesi è stata benedetta dalla generosità di Joseph Mitchell. Questo dono è frutto del genio di Margaret Mitchell e della sua rappresentazione delle dure lotte e della vita del Sud durante e dopo la guerra civile. Dovremmo tutti ringraziare e ricordare la famiglia Mitchell nelle nostre preghiere»: a ringraziare il cielo per l’eredità di Via col vento era l’allora arcivescovo di Atlanta, nonché primo presidente afroamericano della Conferenza episcopale statunitense, Wilton Gregory.

L’EREDITÀ DEI MITCHELL

L’arcivescovo decise di destinare 7,5 milioni alla cattedrale, 1,5 milioni alla Catholic Charities Atlanta per uso immediato e altri 2 perché venisse istituito un fondo per i bisogni a lungo termine, per raggiungere nuove comunità, rinnovare mezzi e sostenere il programma per i rifugiati; un altro milione venne assegnato al sostegno dell’educazione, scuole cattoliche e parrocchiali, 150 mila dollari invece per l’assistenza dei diaconi. Mitchell lasciò anche una raccolta di prime edizioni autografate di Via col vento, pubblicate in varie lingue, e un manoscritto del padre di Margaret sulla storia dei Mitchell che l’arcidiocesi promise di diffondere a un pubblico «più vasto possibile».

Oggi monsignor Wilton Gregory è l’arcivescovo metropolita di Washington. Certo, per avere impiegato parte dell’eredità nella costruzione di una nuova, grande, canonica per sé e i vescovi della cattedrale là dove sorgeva la proprietà di Mitchell – 2,2 milioni di dollari che la Cnn, prima rete a gridare allo scandalo, si chiese se non potevano essere destinati a cause più nobili – , fu costretto a fare pubblica ammenda, mettere in vendita la proprietà destinando i proventi ai bisogni della comunità. Ma lo scandalo non scalfì la sua immagine da perfetto vescovo figlio dello spirito del tempo (tutto ponti e attenzione massima alle problematiche ambientali e climatiche e all’accoglienza delle persone omosessuali).

LA STRANA ETEROGENESI DEI FINI

Osannatissimo in questi giorni dalla stampa liberal per aver denunciato la visita del presidente Donald Trump al Santuario Nazionale di San Giovanni Paolo II nei giorni delle manifestazioni di protesta scatenate dall’omicidio di George Floyd, Gregory ha detto che chi lo ha criticato gli ha ricordato l’epoca del movimento per i diritti civili, quando la gente denunciava sacerdoti e suore in marcia con i leader delle proteste. «La chiesa vive nella società. La chiesa non vive tra quattro mura». E torniamo alla domanda: se la Chiesa in marcia contro il razzismo, capitanata dal primo pastore afroamericano nonché acerrimo nemico di Trump, benedice un libro scritto da una suffragetta, inequivocabilmente progressista per l’epoca, e i cui proventi sono finiti ad aiutare i più poveri e discriminati; se insomma il libro è stato scritto, benedetto e utilizzato da persone e per persone col pedigree da presentabilissimi liberal, come accidenti la mettiamo con la censura?

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