Alfie e Lambert, almeno facciamoci delle domande

Perché di fronte a qualcuno che accetta di farsi carico di costi e cure degli inguaribili la risposta è sempre la rinuncia, la morte indotta, il lavarsene le mani?



I medici dell’ospedale francese Chu Sébastopol di Reims sono convinti: continuare a nutrire e idratare Vincent Lambert è «ostinazione irragionevole», ma non potranno dare seguito alla procedura di sospensione dei supporti vitali annunciata il 9 aprile scorso come imminente. Non fino a quando verranno fatti nuovi esami per determinare l’attuale stato clinico di Lambert. Lo ha deciso il foro di Chalons-en-Champagne venerdì sera: le parti saranno di nuovo convocate in udienza dal Tribunale amministrativo e gli esperti – designati dal giudice e che avranno un mese di tempo per le loro indagini – «dovranno anche dire, nell’ipotesi in cui venisse constata un’evoluzione, se essa è positiva o negativa». Dopo i due interventi del Papa, il messaggio dell’arcivescovo di Parigi Michel Aupetit e l’appello di 70 medici pubblicato dal Figaro, si accende quindi un barlume di speranza per l’ex infermiere. Quarantuno anni, tetraplegico da quando è entrato e uscito dal coma nel 2008, in seguito a un incidente d’auto, Lambert vive da dieci anni in stato di coscienza minima e secondo numerose perizie può migliorare la sua condizione medica: nonostante abbia subìto danni al cervello irreversibili, l’uomo respira in modo autonomo, non è attaccato a nessuna macchina e risponde agli stimoli.
Nel 2013 la moglie Rachel, che da anni non vive più in Francia accanto a lui, ha fatto interrompere l’alimentazione al marito senza informare nessuno. Quando i genitori l’hanno scoperto per caso hanno ordinato ai medici di ricominciare a nutrirlo. Ne è nata una battaglia legale che continua da allora nel dileggio dei genitori chiamati «cattolici integralisti», e sono molte le cliniche che si sono dette disponibili a prendersi cura dell’uomo a Gard, Morbihan e Parigi. Persino un ospedale polacco, il Hospicjum Dom Opatrznosci Bozej ha cercato di ottenere il trasferimento di Vincent. Trasferimento più volte chiesto dai genitori e nuovamente negato anche venerdì dal giudice, più interessato a capire se per Lambert esistono reali possibilità di miglioramento.
DA REIMS A LIVERPOOL. Alfie Evans non ha ancora due anni, è affetto da una misteriosa malattia degenerativa del sistema nervoso non ancora diagnosticata e i medici dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool dov’è ricoverato hanno deciso che è nel suo migliore interesse morire. Tre sentenze di tribunali inglesi e una della Corte europea per i diritti dell’uomo hanno già autorizzato il distacco dai supporti vitali, ventilazione, nutrizione e idratazione assistita, contro il volere dei genitori nonostante tre ospedali lo stiano aspettando a braccia aperte per prendersi cura di lui: il Bambino Gesù di Roma, l’Ospedale Gaslini di Genova e l’Ospedale universitario di Monaco.
Il Papa ha incontrato il padre di Alfie privatamente prima dell’udienza di mercoledì 18 aprile, al termine della quale ha lanciato un secondo appello pubblico per il piccolo paziente inglese e Vincent Lambert: «Vorrei ribadire e confermare che l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine è Dio, è nostro dovere e fare di tutto per custodire la vita. Pensiamo in silenzio e preghiamo perché sia rispettata la vita di tutte le persone». Venerdì la Corte Suprema inglese ha rifiutato l’ultimo appello dei genitori: Alfie, la cui vita è stata definita “futile” da una sentenza, potrebbe morire nelle prossime ore, nonostante i genitori abbiano presentato un ulteriore urgente appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nelle motivazioni, in mezzo ad altri passaggi sconcertanti, i giudici hanno infatti scritto: «L’Alder Hey deve essere libero di eseguire ciò che è stato stabilito essere nel migliore interesse di Alfie. Questa è la legge di questo paese e nessun ricorso alla Corte europea di Strasburgo per i diritti umani può o deve cambiarla».
SE NON CURA, UCCIDE. Per la legge quindi non è mai stata in gioco la dignità bensì la qualità della vita di Lambert o di Alfie, il fatto che potessero o meno migliorare le proprie condizioni. E come ai tempi di Terri Schiavo, di Eluana Englaro, di Charlie Gard, il mondo si è nuovamente spaccato in due, la zona grigia dell’esistenza è tornata ad essere sui giornali territorio di contesa tra cattolici e laici, fede e scienza. Ma è così?
Ci si chiede se l’attenzione mediatica a questo derby sia diventata un diversivo per non voler affrontare la questione di fondo: la resa della medicina, che davanti a malati irreversibili utilizza l’unica scorciatoia possibile dal punto di vista scientifico e auspicabile da quello mondano, cioè la morte procurata. La disponibilità di altri ospedali e la protervia orgogliosa di quelli che hanno deciso il distacco dei supporti vitali per Lambert e Alfie sembrano restituirci una visione del compito del medico quale braccio armato per realizzare una nuova dimensione culturale: diagnosi e terapie, così come la definizione di best interest, di dignità, di accanimento terapeutico o di cura palliativa, cambiano da paese a paese non in base al talento del medico bensì a ciò che il paese crede e ha intenzione di diventare.
Ma questa forma di condizionamento, suggellato da giudici, corti e tribunali, non indebolisce la medicina fino a corrompere la sua indipendenza finalizzata a non lasciare nulla di intentato? Se non possono guarire, i medici si devono arrendere al compito di assistere il malato fino alla fine o a quello di accelerare l’esito finale e fatale della sua vita? E da quando la terminologia usata per stabilire la futilità dei trattamenti sanitari viene riservata all’esistenza umana?
IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE. E veniamo alle due domande, che nessun medico non può non porsi oggi. La prima, sui costi: quanto costa la vita dei Vincent Lambert e degli Alfie Evans? Come è possibile, nell’era dei diritti e delle infinite possibilità, che una morte al prezzo della vita sia più accettabile e sostenibile della vita stessa?
La seconda, sulla categoria pienamente umana e scientifica della possibilità: perché di fronte a qualcuno che accetta di farsi carico di costi e cure dei Lambert e degli Evans, davanti alla disponibilità di chi non scantona e vuole prendersi cura della zona grigia dell’esistenza, la risposta è sempre la rinuncia, la morte indotta, il lavarsene le mani – del paziente sì, ma anche di ha il desiderio di “cum patire” fino alla fine?
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