Aleppo. Bombe ribelli sul collegio dei francescani, dove anziane e frati si sentivano al sicuro

Torno a guardare le foto che ho scattato durante il mio viaggio in Siria. Noi europei affamiamo vecchiette cristiane con le sanzioni, i jihadisti finiscono il lavoro

La cena sta finendo, la giornata è stata memorabile, hai potuto raccontare dei tuoi fratelli cristiani perseguitati, carne della tua carne, in una meravigliosa sala cinquecentesca del palazzo comunale di Perugia, insieme a un appassionato come il cardinale Bassetti e a un inviato di guerra di serie A come Gian Micalessin. Hai potuto ancora una volta pronunciare i loro nomi, mostrare i loro volti, strappare all’oblìo e consegnare alla memoria il loro sacrificio. E implacabile ti arriva la notifica via social media: mentre tu evocavi l’Iraq, e Micalessin la Siria, ad Aleppo due missili sparati dai ribelli sono caduti sul collegio Terra Santa dei francescani, nel quartiere dell’università. Una anziana ospite della struttura è morta sul colpo, due sono rimaste gravemente ferite, tutte le altre sono terrorizzate, e i frati che volevano fare del loro collegio un centro di resistenza umana contro la logica disumana della guerra ora sono scoraggiati.

Avere fatto un reportage di tre giorni ad Aleppo passando da una struttura cristiana all’altra, incontrando giovani, adulti, anziani, sacerdoti, vescovi e suore significa anche questo: che un mese dopo l’altro ti arrivano notizie che collegano volti e luoghi con cui hai familiarizzato a progetti di morte che piovono dal cielo. Una volta la bomba artigianale cade sull’abside della chiesa dove la mattina partecipavi alla Messa fra le panche semivuote, e ciascuno rimetteva la propria vita nelle mani di Dio. Un’altra centra la casa della signora la cui gentilezza e premura avevi imparato ad apprezzare, assidua della parrocchia latina: se la sua ragazza fosse stata meno impacciata nel girare la chiave nella serratura chiusa a doppia mandata, adesso Roulah avrebbe perso una figlia.

L’appuntamento con l’esplosione mancato di pochi secondi, quel tanto di tempo che fa la differenza fra restare vivi e morire trafitti da schegge. Un’altra volta ancora – pochi giorni fa – una pioggia di colpi di mortai cade sul già tormentato quartiere di Er Ram, in faccia alla succursale della parrocchia francescana. Dalle sue finestre avevi scrutato e fotografato le rovine degli appartamenti di fronte sventrati, ascoltando le tristi storie delle persone che vi avevano perso la vita pochi mesi prima.

E adesso i razzi sul collegio francescano. Un posto tranquillo, lontano dalla linea del fronte che attraversa Aleppo con le anse di un serpente velenoso, un tracciato sinuoso a volte visibilissimo e a volte invisibile attraversato mai dagli uomini e spesso da bombe, razzi, incursioni aeree, colpi secchi di cecchini appostati sul lato opposto, autobombe, tunnel scavati sotto le strade per andare a minare le postazioni avversarie. Nel collegio non ci sono più studenti, ma di tanto in tanto si riuniscono i gruppi giovanili, o meglio quello che ne resta dopo quattro anni di emigrazioni per altre terre o per il Cielo. All’ingresso ci sono piante e aiuole che assomigliano a un parco, panchine e tavoli da picnic. Le famiglie non hanno mai smesso di venire qui a respirare la frescura del tardo pomeriggio, a celebrare il rito della normalità che resiste all’insopportabile anormalità della guerra e del tempo che scorre placido scansando i gorghi del destino.

Qui erano state trasferite le anziane ospiti dell’istituto San Vincenzo di piazza Fahrat a Jdeideh, il quartiere cristiano spietatamente bombardato dai ribelli durante la Settimana santa ortodossa del 2015. A Jdeideh c’erano solo chiese, negozi e ristoranti, abitazioni private con il pergolato nei cortili mignon, le scale a chiocciola per salire ai piani superiori. È stato attaccato per pura cattiveria, per punire i cristiani che dopo tre anni di combattimenti si ostinavano a non aprire le porte ai ribelli e a non abbandonare la città. Cinque giorni prima dell’attacco più devastante, quando già erano cadute le prime bombe, le signore erano state trasferite al collegio francescano. La tempistica aveva salvato loro la vita: fra il 6 e il 7 aprile erano piovute bombole del gas farcite di esplosivo e schegge metalliche, causando danni più estesi di quelli che i tradizionali razzi e colpi di mortaio provocavano. Il direttore dell’istituto, che era rimasto sul posto, aveva perso la vita. Le occhiaie vuote e annerite dell’ospizio, che si affacciavano ammonitrici sulla piazza completata da una chiesa maronita e da una chiesa melkita gravemente danneggiate all’interno e all’esterno, facevano immaginare cosa sarebbe successo se le ospiti non fossero state provvidenzialmente e tempestivamente trasferite altrove.

Al collegio le donne si mostravano chiassose e curiose coi rari visitatori. Lo scampato pericolo anziché spingerle verso l’angoscia le aveva rianimate, sembravano sentirsi invulnerabili per il modo casuale in cui erano sfuggite alla morte. Quelle che conoscevano un po’ di francese facevano a gara a raccontarmi delle loro famiglie, a spiegarmi dove vivevano figli e nipoti, e a chiedermi della mia. Una signora ottantenne si intrattenne con me in perfetto castigliano: aveva vissuto col marito e i figli trent’anni in Venezuela, prima di decidere di rientrare al paese di origine. Non si lamentava della decisione del coniuge, decisamente sfortunata, per lei era troppo gustoso poter parlare con uno straniero in una lingua che nessun altro lì intorno poteva capire. L’ebbra vivacità del manipolo di zoppicanti signore contrastava coi chiaroscuri di tristezza e di soprassalti di dignità dei ragazzi della Legio Mariae, che negli stessi locali del collegio francescano avevano risposto a tutte le mie domande incentrate sul cosa significasse essere giovani e cristiani in una città come Aleppo.

«Nei primi tempi della guerra piangevamo quando giungeva la notizia che un nostro amico era morto in un bombardamento. Adesso quando succede il mio primo pensiero è: “Fortunato lui, ha smesso di soffrire “. Noi che sopravviviamo siamo sempre tormentati dall’angoscia e dalla paura», arrivò a dire una ragazza. Ma poi all’uscita dalla sala ragazzi e ragazze vollero cantare e suonare con accompagnamento di chitarra e percussioni una canzone in onore del reporter italiano che era venuto a incontrarli e prometteva di far conoscere al mondo i loro pensieri e il coraggio con cui avevano deciso di restare e di non emigrare.

Torno a guardare le foto che ho scattato alle anziane in compagnia dei frati che le avevano accolte. Davvero si sentivano al sicuro in quel rifugio dall’altra parte della città, lontano dagli aguzzini di Jdeide. Non erano più un bersaglio. Ma il futuro è sempre un’incognita, e la verità è che ad Aleppo non esistono luoghi sicuri, oasi di pace, porti tranquilli. L’appuntamento con la crudeltà degli uomini era solo rimandato. Stamattina a Tartous e Jableh, due località della costa mediterranea dove la guerra non era mai arrivata, sono esplose autobombe che hanno ucciso un centinaio di civili. Oggi l’Unione Europea rinnoverà le sanzioni economiche contro il governo siriano, un provvedimento che, come è sempre successo nella storia, fa soffrire la popolazione civile innocente e fa il solletico ai potenti che si vorrebbero mettere con le spalle al muro.

Noi europei impoveriamo e affamiamo vecchiette cristiane e civili come quelli che si trovavano a una stazione di rifornimento e fuori da un ospedale a Tartous e Jableh, l’Isis e altri jihadisti finiscono il lavoro assassinandoli. Possiamo continuare a girare la testa dall’altra parte, fingere di non avere responsabilità, lasciar condurre ai nostri governanti le politiche più insensate. Ma la Siria verrà a bussare alle nostre porte ogni giorno di più, sotto forma di profughi e di jihadisti.

@RodolfoCasadei

Foto collegio/anziane Rodolfo Casadei

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