L’adulterio è un’ingiustizia

Osservazioni a proposito di un articolo del cardinale Walter Kasper sul matrimonio e sul fatto che ci possa essere «perdono senza pentimento»

Nel suo ultimo articolo sul Sinodo in Stimmen der Zeit il cardinale Walter Kasper esprime una sorpresa molto significativa: «Continua ad essere un mistero per me come si è potuto obiettare a questa [mia] proposta, che prevedeva un perdono senza pentimento. Questo infatti è un vero assurdo teologico». Vorrei semplicemente aiutare il cardinale a risolvere questo mistero che gli proposi nella mia prima risposta alla sua relazione nel concistoro dei cardinali.

Con grande chiarezza il cardinale ci indica che al centro di qualunque azione pastorale verso i divorziati che si sono risposati bisogna mettere le parole di Cristo. Lui menziona nel suo articolo un aspetto essenziale: «L’uomo non separi ciò che Dio ha unito» (Mt, 19,9; Mc 10,9; Lc. 16,18), che esprime la volontà del Signore riguardo al matrimonio. A questa affermazione vorrei aggiungere la definizione del peccato che si commette: «Se uno ripudia sua moglie e si sposa con un’altra, commette adulterio contro la prima» (Mc 10,11). Il peccato che la Chiesa riconosce in colui che ha contratto una nuova unione dopo un primo matrimonio è quello dell’adulterio. Potrebbe sembrare ovvio e irrilevante, ma non è così. Di fatto, nell’articolo del cardinale tedesco la parola adulterio praticamente non compare. Fare uso di questa parola non è altro che assumere il linguaggio evangelico con tutta la sua parresìa che va oltre i convenzionalismi sociali. Si tratta di accogliere la sua verità sull’amore umano come una luce della nostra vita che non ha paura di dare un nome alle azioni e parlare di peccato. Chiarire il tipo di peccato che si perdona è essenziale per il perdono stesso e per specificare la possibile via poenitentialis che si apre.

Quindi, dopo questa chiarificazione, si vede la necessità pastorale di evitare un “perdono senza pentimento”, vale a dire, la persona che è entrata in una nuova unione ha commesso un adulterio contro il suo primo coniuge e deve uscire da questo peccato. L’evidente espressione oggettiva dell’adulterio è avere relazioni sessuali con una persona diversa dalla propria moglie o dal proprio marito. È di questo che una persona nella situazione di una nuova unione si deve pentire. Non si tratta di una questione secondaria, perché ci troviamo davanti all’amore coniugale che si esprime nel corpo e che in tale manifestazione corporale incontra la sua verità. San Paolo lo dice con grande esattezza: «La moglie non è padrona del proprio corpo, bensì il marito; ugualmente, nemmeno il marito è padrone del proprio corpo, bensì la moglie» (1 Cor. 7,4). Questo non è che una conseguenza normativa basilare del fatto di essere «una carne» (Gen. 2,24).

L’adulterio è perciò un peccato d’ingiustizia in quanto ha a che vedere con un rapporto nel quale viene implicato un bene oggettivo quale la consegna sessuale del corpo. La specificità della giustizia, così come la spiega San Tommaso d’Aquino, in quanto testimone della tradizione cristiana, sta nel fatto che essa prende la sua misura nella cosa oggettiva e non direttamente nel soggetto agente. Ne deriva che il diritto tratti della determinazione oggettiva dei termini di giustizia e che la Chiesa abbia inteso la frase «l’uomo non separi» come una fonte di diritto, precisamente per evitare un modo arbitrario e soggettivista di avvicinarsi alla realtà del matrimonio.

Il valore della giustizia è tale che non si può perdonare un peccato di ingiustizia se non esiste nel penitente la volontà effettiva di riparare l’ingiustizia o di rimediare al danno. Questo principio morale è così legato alla realtà del giusto che tale requisito non è mai stato considerato come un limite alla misericordia, bensì un modo per riconoscere la verità della misericordia che cambia il cuore delle persone.

Quindi, per poter perdonare il peccato di adulterio commesso da una persona che ha iniziato una nuova relazione dopo il matrimonio bisogna esigere da questa l’intenzione di non commettere più adulterio, cioè, di non avere relazioni sessuali con nessuna persona al di fuori del proprio coniuge. Questo è il criterio che deve guidare qualunque via poenitentialis proposta per i divorziati che hanno contratto una nuova unione. Ricordiamo che nell’epoca in cui questo percorso era consueto nella Chiesa, la richiesta di astenersi da relazioni sessuali era una pratica molto abituale di questa penitenza.

Lo stesso cardinale Kasper sembra accettare l’esistenza di un peccato di ingiustizia nel fatto della seconda unione, quando propone l’epicheia come il modo di trovare soluzione al problema pastorale che emerge. L’epicheia è una virtù legata alla giustizia e solo in essa ha la sua ragione di esistere. Per questo la sua applicazione non consiste mai nel cercare un’eccezione alla norma, quanto nel comprendere meglio nel caso concreto il senso di giustizia della norma. Non agisce mai al di fuori della norma, bensì secondo la giustizia vera. E per questo, l’epicheia richiede ragioni oggettive per la sua applicazione (“iustitiae ratio” STh. II-II, q. 120, a.1) perché non rimanga il minimo indizio di un’arbitrarietà da parte di chi la applica. Di conseguenza, si è sempre capito, dalla posizione tomista che assume il cardinale, che non ha spazio di applicazione in quello che corrisponde ai mandati della legge naturale.

La questione si centra ora nel punto chiave per un perdono vero: di quale realtà oggettiva dobbiamo chiedere che il divorziato che ha contratto una nuova unione si penta per poter ricevere la vera Misericordia di Dio.

Stranamente, in questo articolo il professore tedesco non fa allusione ad alcun criterio oggettivo. Rende un tale elogio alla situazione concreta e personale che, in questo modo, dimentica i requisiti minimi di qualsiasi relazione di giustizia, che mette in rapporto le persone tramite beni oggettivi e deve fare riferimento a questi per non ridursi ad un soggettivismo che corromperebbe la relazione tra gli uomini. È chiaro che un padre di famiglia non può sostenere che sia giusto abbandonare un figlio per il fatto che sia stato un bambino non voluto. La particolarità della situazione e delle difficoltà soggettive che abbia ad accettarlo non tolgono niente all’obbligo che ha verso suo figlio.

Nel suo scritto anteriore al Concistoro, abbiamo già trovato alcuni criteri oggettivi, per cui supponiamo che continui a pensare a queste condizioni oggettive, sebbene ora non ne parli. Si tratta di requisiti generici validi per tutti i casi perché derivano dalla giustizia implicata nel matrimonio. Le proponeva come condizioni necessarie per poter ricevere il perdono sacramentale. Ricordiamole: «1. Se si pente del suo fallimento nel primo matrimonio, 2. Se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro, 3. Se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile, 4. Se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede, e di educare i propri figli nella fede, 5. Se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione».

Ci stupisce che il tema del possibile adulterio sia totalmente assente in queste condizioni oggettive. Nonostante sia una questione evangelica di massima importanza, tanto che si inserisce nell’antitesi del Discorso della Montagna (Mt. 5, 37 – 32), come una chiarificazione dei requisiti propri della Nuova Alleanza. Questo è così fino al punto che, nei casi in cui non si applica nel Nuovo Testamento la definizione di adulterio, e si permette una nuova unione, come sarebbe la clausola di Matteo o il privilegio paolino, si fa non mediante eccezioni pastorali di una legge troppo dura, bensì attraverso ragioni oggettive che permettono di comprendere meglio la norma dell’unione «in una carne».

In realtà, se il cardinale Kasper introducesse la condizione di evitare qualsiasi atto adultero nella nuova unione, la sua proposta si posizionerebbe veramente in quell’ermeneutica della continuità di cui parla nel suo articolo. Una continuità che chiede il riconoscimento che ci siano criteri che permettono di specificare l’oggetto morale di un atto come dice la Veritatis splendor (n. 80) quando parla di: «Gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati intrinsecamente malvagi (“intrinsece malum”): lo sono sempre e per se stessi, vale a dire, per il loro scopo, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di colui che le attua, e delle circostanze». Queste azioni chiedono un discernimento diverso dal metodo casistico che propone il cardinale tedesco. D’altra parte, il fatto tanto significativo di tacere sulla questione fondamentale – ci troviamo davanti ad un peccato di adulterio e tutto sembra condurre a proporre un perdono senza pentimento – è un assurdo teologico di massima gravità. Tutti comprendiamo che questa richiesta di evitare l’adulterio nella nuova unione è molto difficile da accettare in una società sessualizzata al massimo. È qui che si richiede la vicinanza e l’accompagnamento della Chiesa, fino a che comprendano in quale modo la grazia di Dio gli rende possibile vivere secondo i requisiti della Nuova Alleanza, quindi questa è la grande vittoria della Misericordia di Dio, che sana il ferito e lo rende capace di vivere secondo l’alleanza divina.

La comprensione del ruolo della giustizia nel matrimonio è stata componente fondamentale in tutta la storia della Chiesa al fine di riconoscere i beni oggettivi che sono implicati e l’importanza di difendere questi beni per l’importanza che hanno per le persone. Evitare l’ingiustizia dell’adulterio è, senza dubbio, un modo eccellente di «realizzare la verità nell’amore» (Ef. 4,15).

Foto Ansa

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