Accompagnare un bambino alla scoperta della fede è una sfida anche per gli adulti. Arriva un valido aiuto

Esce una collana di libri per aiutare gli adulti: «Questi libri sono concepiti come sussidi per dei testimoni. Non c'è strumento che possa sostituire la testimonianza»

«Per educare un figlio serve un intero villaggio», disse papa Francesco citando un proverbio africano nel maggio dell’anno scorso, incontrando studenti e alunni provenienti da scuole italiane di ogni ordine e grado. Fu una festa per non dimenticare che «andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, la scuola ci insegna a capire la realtà nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni». Parole che per chi guarda a quel mondo dall’esterno sono un ricordo, nel migliore dei casi frasi stampate su qualche foglio su cui ci si ripromette di tornare nel primo minuto di tempo. Parole scritte nell’esperienza di ogni giorno per chi tra i banchi ci vive. Renata Rava tra i banchi ci vive da oltre quarant’anni. Una carriera iniziata con un concorso vinto ad università non ancora finita, l’incarico di ruolo, la selezione per la scuola elementare e una vita che si impasta con un lavoro entusiasmante, percepito da subito come compito.

«È sempre una vita quella che si comunica, non una dottrina, seppure buona», spiega a Tempi presentando il percorso elementare di religione, curato insieme ai colleghi e amici Santa Bianchi e Paolo Amelio. Pubblicato da Itaca, il percorso è articolato in cinque volumi, pensati come sussidio agli adulti (siano essi insegnanti, catechisti o genitori) che si trovino ad accompagnare i bambini dai 6 ai 10 anni nell’avventura della fede. Il racconto di questo lavoro è inevitabilmente l’occasione per uno sguardo sul mondo della scuola, snodo significativo delle relazioni tra adulti e bambini e polso della società. E qui l’esperienza della maestra si scontra con quelle che sembrano le criticità sociologiche più urgenti: adulti frettolosi e assenti, bambini magari intelligentissimi ma emotivamente immaturi, insegnanti preparati ma restii a “dare in pasto” agli alunni tutta la vita e non solo le proprie conoscenze e poi un tempo libero che non esiste più, stritolato nell’agenda delle decine di attività pomeridiane.

«Di certo questi sono anni in cui i bambini hanno tante fragilità, nuove e inattese. Eppure – sottolinea Renata Rava – non penso che i bambini siano cambiati in quel “nocciolo” che li costituisce, ovvero il desiderio di essere presi in considerazione e stimati da un adulto, che li accompagni senza interferire troppo. Dopo quarant’anni devo dire che sono sempre molto colpita dalla positività che i bambini hanno di fronte a una proposta che viene da un adulto, che siano le cose da imparare a scuola o i giochi all’oratorio».

Desideri testardi
Ed è in fondo questa immutabilità dell’esperienza originale di ogni bambino a caricare gli adulti, genitori o insegnanti, di una grande responsabilità. Lo spiega bene Franca Rava, sorella di Renata, oggi in pensione dopo una carriera nelle scuole di ogni ordine, dal nido alle medie, passando per la materna e le elementari. «D’estate portavo i ragazzi dell’oratorio in vacanza. Ricordo un anno, quando passavo nelle camere a dare la sveglia, c’era una ragazzina che appena aprivo la porta si faceva il segno di croce. Lei oggi non è più cristiana, ma quel suo gesto mi ha molto cambiata, desideravo poter avere la stessa, istintiva eppure lucida coscienza». La vita di un insegnante è in fondo piena di questi episodi, che documentano la crescita dei ragazzi, la freschezza dei bambini.

«Come quella gita a San Galgano – continua Franca – con alcuni ragazzi delle medie, dove c’è la spada nella roccia. “Professoressa – ha detto un ragazzo durante l’assemblea del pomeriggio – io quando sono entrato nella cappella e ho visto la spada infissa nella roccia ho capito che il cielo c’entra con la terra”. Oppure quella bambina di quattro, cinque anni, alunna di una mia collega. Erano fuori a giocare, a un certo punto la bimbetta prende per mano la maestra, la porta a vedere una goccia di rugiada immobile su una foglia: “Maestra, chi l’ha messa lì?”. Il bambino così piccolo ha la concezione che tutto è dono, anche se non ce l’ha in parole, ce l’ha come esperienza». Una impostazione naturale che testardamente resiste, anche quando gli adulti sono tutti concentrati sulle competenze da assicurare al bambino perché non resti indietro nella realtà, così le preoccupazioni diventano tutte “funzionali”: «Maestra guardi che questo lui di solito non lo mangia, e il grembiule se lo fa mettere solo in questo modo. E così raramente arrivando ti chiedono: “È felice mio figlio quando arriva a scuola?”».

Proprio quella che potrebbe sembrare la più dogmatica delle materie, la religione, è pensata come una possibilità di rapporto tra adulti e bambini. Meglio, spiega Renata Rava, non potrebbe essere altrimenti. «Quando un adulto si rivolge a un bambino comunica sempre la propria vita. Perciò questi libri sono concepiti come sussidi per dei testimoni. Non c’è strumento, infatti, che possa sostituire la testimonianza e la presenza dell’adulto». I contenuti della rivelazione cristiana sono diluiti in cinque volumi molto diversi tra loro, strutturati per incontrare le esigenze delle diverse età. I primi due volumi sono parte di un biennio che corrisponde a un periodo della vita dei bambini in cui l’esperienza ha la precedenza su tutto.

La precedenza al dato
«In questi primi passi – spiega Renata Rava – il bambino ha un rapporto con Gesù molto personale, attraverso l’introduzione delle preghiere. In questa fase il testo serve prima di tutto al bambino a dire chi è, e, pur nell’essenzialità, risponde alla domanda di coscienza che un bambino di sei anni si pone rispetto alla nascita, alla generazione, alla differenza tra maschio e femmina, ma anche al destino, alla morte. Sono esigenze a volte implicite, a volte esplicite. In questa fase quella concezione caratteristica della Genesi, per cui il mondo è creato come buono e destinato al bene, alla salvezza, è un orientamento per la vita».

Così la proposta è adeguata all’esigenza di certezza che costituisce il bambino a quell’età. «La scuola elementare – riprende Renata – è quel momento in cui prevale l’incontro con ciò che c’è. Per questo sia come insegnante che come educatrice ho sempre concepito il mio ruolo come un aiuto ad osservare, a conoscere, a scoprire». Come valutare allora i casi sempre più frequenti di educazione sessuale svolta attraverso teorie che considerano l’identità di genere come una scelta da compiere? «Io credo che anche in questo caso, un bambino sia davanti a un’evidenza, che è quella che in classe ci sono 12 maschi e 13 femmine. Questo è un momento in cui un bambino si posiziona rispetto alla realtà; perciò qualsiasi interpretazione della realtà penso che sia scorretta dal punto di vista didattico e pedagogico, perché è un momento in cui i sensi sono attivi per un incontro con il dato».

Crescere significa guardarsi intorno, iniziare ad uscire da quel meraviglioso egocentrismo del bambino per riconoscersi parte di una storia. Anche il percorso dell’educazione alla fede non può obliterare questo passaggio. Perciò il triennio della collana apre a una dimensione storica: la domanda implicita sul senso della vita diventa interrogativo esplicito dei popoli nella storia. «I bambini vengono introdotti alla conoscenza della Chiesa, dei sacramenti. In questa fase hanno una grande importanza le storie dei santi, persone che hanno sperimentato che l’incontro con Gesù Cristo rende la vita grande e bella».

La responsabilità degli educatori
Ancora una volta il contenuto proposto ai ragazzi rimbalza nella vita degli insegnanti, degli adulti, degli educatori. «Tante volte le catechiste mi raccontano che i bambini fanno fatica a stare attenti. Non c’è proprio da demoralizzarsi: l’incontro con Gesù avviene in qualsiasi condizione, incontrano il senso della vita anche attraverso di noi, attraverso la compagnia che gli facciamo, la disponibilità a fare un un pezzo di strada insieme. Ho seguito quasi duemila bambini per la prima comunione, ma non ho mai visto un bambino disinteressato, che non abbia percepito il valore di quello che stava facendo. A noi è chiesto solo di fare il nostro lavoro con coscienza, poi al resto ci pensa un Altro».

Il punto dove allargare le braccia di fronte alla libertà altrui è in realtà, ancora una volta, un richiamo alla responsabilità degli adulti. Non a forzare la risposta di qualcuno ma a sostenere la solidità della propria proposta. Una proposta che nella storia di queste insegnanti di lungo corso, e come loro di centinaia di altri insegnanti che hanno avuto la fortuna di incontrarlo, ha il volto e il carisma di don Giorgio Pontiggia, geniale educatore e maestro all’origine della Fondazione Sacro Cuore di Milano, dove oggi Renata lavora. «Un incontro vivo – conclude Renata – che si è rinnovato nel tempo con altri grandi educatori ed è ancora oggi è un’esperienza di nuova conoscenza». In fondo anche il fatto che questo percorso di educazione religiosa sia nato dal lavoro e dall’amicizia con altri colleghi è figlio di questa impostazione: è fondamentale che l’adulto non sia solo. Proprio come in un villaggio.

Foto scuola da Shutterstock

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