Abbronzatevi con questo: “Dino Buzzati al Giro d’Italia”

Nel '49 lo scrittore bellunese raccontava per il Corriere il Giro d'Italia: fughe dall'esito imprevedibile, folle appassionate, atleti sofferenti. La miglior lettura in tempo di Olimpiadi.

Difficile trovare questo libro sugli scaffali di letteratura sportiva delle nostre librerie. Invece un posto lo meriterebbe eccome, perché Dino Buzzati al Giro d’Italia (Oscar Mondadori, 194 pagine, 9 euro) è un esempio di giornalismo sportivo di rara bellezza, dove la cronaca dell’evento ciclistico tenuta per le colonne del Corriere della Sera si fonde con la profondità di sguardo della penna bellunese (di cui quest’anno ricorreva il quarantesimo della morte). Le sfide tra Coppi e Bartali, i tentativi di fuga di qualche giovane ciclista, le attese delle città per i corridori in arrivo: tutto viene dipinto con una enorme attenzione per il carattere umano, per i piccoli e grandi drammi della vita dei protagonisti, intrecciandosi a fattori immaginari e misteriosi.

Oggetto di queste pagine è il Giro d’Italia del 1949, che appunto Buzzati raccontò per il Corriere: l’anno vuole che il Paese stesse rialzando a fatica la testa dal dolore della Guerra Mondiale, e per tanti il passaggio di quella corsa era il segno di una vita che rinasce, torna ad essere carica di speranze. Gli esempi di ciò si alternano di pagina in pagina: Palermo «dorme ma con un occhio solo» per l’attesa della prima tappa, mentre il passaggio del Giro in Liguria mette le ali ai fratelli Rossello, ciclisti che si esaltano quando respirano l’aria di casa, là dove c’è un pubblico amico ad aspettarli: «Non appena si avvicinano alla loro città o paese e il caro dialetto di famiglia comincia ad echeggiare da una parte all’altra della via, allora anche i brocchi, gregari dell’ultima fila, relegati nei bassifondi della classifica, si trasformano in leoni. (…) E questo affetto esalta; anche i più meschini per qualche minuto almeno riescono a rivaleggiare con Coppi. Nella ipotesi minima, quando il compaesano ha gambe di poche pretese, è una fuga nei pressi della città natale; cartelli inneggianti proprio a lui pendono dai pali telegrafici e dai balconi, il suo nome è scritto a lettere immense sull’asfalto commisto a quello dei “grandi”. Subito lo riconoscono, non occorre decifrare il suo numero». I segni della Guerra sono ancora evidenti, nelle città e sui volti della gente: ci si commuove a leggere le pagine su Cassino, dove i fantasmi dei morti del conflitto si ridestano risvegliati dal passaggio dei corridori. Scenari di distruzione e ripartenza, dove la gente cerca nuovi miti cui affidare i propri sogni: così il duello tra Bartali e Coppi assume toni epici, dove i loro nomi potentemente rimbalzano da una città all’altra, offuscando tutto il resto.

Ogni tappa è narrata con una simpatia per gli elementi misteriosi della scena, sempre ritratti in maniera esemplare. C’è sempre qualcosa di segreto, arcano a dominare questo sport, o per lo meno nei suoi scenari di contorno: come sulle Dolomiti, che agli occhi dei ciclisti diventano montagne «che non si lasciano ingannare. Esse stanno solenni e impenetrabili avvolte da immensi mantelli di nuvolaglia, tenendo chiuso in sé il destino». Oppure nelle attese della gente per la prima tappa: tra calcoli e organizzazione, ci si prepara ad assistere alla sfida Coppi-Bartali . E l’autore si chiede: «La grande impresa si ridurrà a un duello tra i due massimi e proverbiali assi? O dalla schiera dei cadetti uscirà all’improvviso il nuovo nome destinato ad attraversare il mondo? (…) Si apre la prima pagina del romanzo. Si vede una lunga strada sotto il sole, da una parte e dall’altra due siepi di umanità in delirio, e in fondo, che si scorge appena, un cosino scuro che avanza. Dio, come vola! È un uomo in bicicletta a testa bassa, solo, lanciato alla vittoria. Chi è? Chi è? Un rombo di laggiù si approssima, e l’urlo della folla sembra un tuono. Chi è? Ma non si può rispondere. Troppo lontano è ancora».

Tutte le componenti dello sport vengono ben mixate in queste pagine:c’è il dramma di ogni atleta, uomo vero come tutti di fronte alle sofferenze degli sforzi che deve vivere, ci sono la passione e le speranze degli spettatori, che «nelle straordinarie capacità dei due uomini, capacità rozze, se volete, elementari, essenzialmente fisiche, (…) avvertono forse qualcosa di misterioso, di sacro, una specie di grazia, il segno di una potestà sovrannaturale. E forse questo spiega l’immensa attrazione dello sport. Questo giustifica ciò che altrimenti sembrerebbe assurdo: che cioè persone ragionevoli e colte possano perdere la testa e agitarsi e urlare per un giocatore di calcio o un ciclista». E infine c’è quell’elemento d’imprevisto che ogni volta abbraccia i risultati sportivi, rendendoli inattesi e impronosticabili. In fondo, in tempi di Olimpiadi leggere un libro simile è il modo migliore per gustare questa rassegna.

@LeleMichela

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