Abbiamo il diritto di mangiare gli agnelli

Anno dopo anno l’assedio vegano e animalista si stringe attorno alle mense degli italiani, ai loro frigoriferi, alle loro abitudini alimentari. E si fa particolarmente assillante sotto Pasqua e sotto Natale, quando avvelena il clima sociale e i contesti familiari con le sue campagne mediatiche volte a suscitare sensi di colpa e di vergogna in chi è solito cibarsi di carne, e che riescono soltanto a produrre dissidi e scambi di accuse in famiglia. In un’epoca di polarizzazione politica, fratture sociali, tensioni fra visioni diverse della vita, di questo ulteriore conflitto che divide il mondo fra carnivori e vegetariani proprio non si sentiva la mancanza. Ma ormai è qui e non se ne andrà tanto presto, perciò tocca parlarne e in qualche modo prendere posizione.

La visione del mondo che i vegetariani e i vegani hanno e che vorrebbero imporre a tutti gli altri nasce dal loro desiderio che non vengano causate sofferenze agli esseri senzienti e dall’affermazione di una certa parità fra uomini e animali, di una eguaglianza di diritti che deriverebbe dalla comune condizione di esseri viventi senzienti (“Animali come noi” si intitola una emissione attualmente trasmessa su Rai3). Il loro errore fondamentale sta proprio in questa visione egualitaria. In realtà uomini e animali non sono esseri sullo stesso piano, fra loro c’è una differenza ontologica decisiva: gli uomini sono esseri morali, gli animali no, perciò non si può parlare in senso proprio di “diritti degli animali”. Di diritti e di doveri si parla in ambito di soggetti morali: chi ha diritti ha anche doveri, non esiste nessun soggetto morale che abbia solo diritti e nessun dovere, a meno che non sia inabilitato ad agire per una circostanza particolare (il bebè, il malato in coma, il demente).

Chi potenzialmente è in grado per il futuro o per il passato di compiere atti morali, è titolare di diritti ai quali magari al momento non corrispondono doveri. Ma gli animali non hanno doveri, né in potenza né in atto: non sono moralmente responsabili dei loro comportamenti, non violano nessuna etica quando feriscono o uccidono un altro animale, fosse pure un essere umano. Se vengono soppressi o ingabbiati a seguito di un incidente che ha comportato dei danni per gli esseri umani, non è per punirli, ma per ragioni di sicurezza, per evitare che l’episodio si ripeta. Il fatto che gli animali non siano esseri morali non significa che gli uomini non abbiano nessun dovere verso di loro. Contraggono doveri nella misura in cui li addomesticano e li allevano per il loro vantaggio utilitaristico, sia che ne facciano animali da compagnia o che li usino per il consumo alimentare. Nella misura in cui gli esseri umani rendono gli animali dipendenti da loro, contraggono dei doveri nei loro confronti, che però non potranno mai essere all’altezza di quelli che hanno verso gli altri esseri umani, a motivo della differenza ontologica fra uomini e animali.

In secondo luogo, gli animalisti vorrebbero attirare l’attenzione su un’asserita uguaglianza fra uomini e animali, ma evitano di prendere nella dovuta considerazione un fatto decisivo che tutte le specie hanno in comune: non tutti gli animali mangiano intenzionalmente altri animali, ma tutti gli animali sono mangiati da altri animali. Che siano mangiati da vivi o da morti, che siano uccisi per essere mangiati o che siano mangiati da chi non li ha uccisi ma approfitta della loro morte, tutti gli animali finiscono per essere mangiati da altri animali. Anche l’animale uomo prima o poi sarà mangiato: se non da un leone o da uno squalo, per lo meno dagli avvoltoi o dai vermi e dagli insetti. Insetti che si ciberanno di lui anche quando è in vita, come nel caso di zanzare, pulci e altri insetti ematofagi. Non si vede dunque in nome di quali diritti e di quale uguaglianza l’uomo dovrebbe rinunciare al consumo della carne e/o dei prodotti di altri animali, comportamento diffusissimo in natura.

Qualcuno potrebbe teorizzare che almeno gli animali erbivori dovrebbero essere risparmiati, poiché essi non partecipano ai banchetti incrociati fra gli altri animali. Ma questa è la solita indebita antropomorfizzazione degli animali, che ne parla come di esseri morali: l’antilope o l’agnello che si nutrono solo di latte materno e di fili d’erba non fanno questo per una scelta etica, per un’opzione non violenta nei confronti degli altri animali, ma solo per un’indole intrinseca alla loro specie. Senza merito e senza colpa. Non hanno il merito di risparmiare vite e sofferenze, ma nemmeno il demerito di essere additati come pigri e indolenti che si approfittano del lavoro di altri (le imbelli pecore si approfittano del lavoro del cane lupo che le protegge dai predatori: ma questa è solo un antropomorfizzazione in negativo delle caratteristiche degli erbivori e dei carnivori, che non possono essere mai considerate in una luce morale).

L’uomo ha tutto il diritto di cibarsi degli animali che alleva, ma ha il dovere di prendersi cura di loro nel modo migliore che gli è possibile e di minimizzare la sofferenza dell’animale al momento del trapasso. L’animale d’allevamento deve la sua vita all’uomo: non sarebbe al mondo se l’uomo non avesse deciso di darsi all’allevamento. Il prezzo che paga per la sua vita è la soppressione fisica seguita da macellazione e trasformazione in cibo. L’uomo che l’ha chiamato alla vita per poi cibarsene ha il dovere di rendere confortevole e soddisfacente a livello sensitivo l’esistenza dell’animale. Questo spesso non avviene, a causa della trasformazione dell’allevamento in attività industriale sottomessa alla logica del profitto. Questa logica si fa carico del benessere dell’animale in misura molto limitata, crea una distanza fra l’animale e l’allevatore che inibisce i sentimenti di simpatia dell’allevatore verso l’animale e infine stabilisce una totale estraneità fra il consumatore di carne che si reca al supermercato e l’animale di cui si ciba.

Appoggerei gli animalisti se proponessero una legge in base alla quale ha diritto di consumare carne solo chi, nel corso della sua vita, ha allevato animali in un rapporto diretto, fisico con loro. Chiunque consuma carne dovrebbe essere anche, almeno parzialmente, un allevatore. Una legge del genere avrebbe risvolti morali, sociali, politici e pedagogici: l’uomo reimparerebbe il rapporto con la realtà, uscirebbe dalla mentalità pulsionale delle disponibilità immediata, riscoprirebbe la densità e la resistenza che le cose oppongono ai nostri progetti, il senso del limite e quello del rispetto e della gratitudine per l’essere vivente che muore a nostro vantaggio.

L’ho tirata lunga. Due parole sulla crescente influenza di animalisti, vegani, vegetariani, eccetera: non è il segno di un desiderio di ritorno alla natura, ma l’esatto contrario, è il segno di un’indebita antropomorfizzazione della natura. L’animalista che vorrebbe che tutti trattassero gli animali come se fossero persone, sta negando la loro alterità, la loro irriducibilità, li sta trasformando in qualcosa che essi non sono, sta negando il loro statuto ontologico annettendoli all’ambito del rapporto fra esseri umani. Chi vuole proibire agli umani di mangiare gli animali non ha una visione naturalistica della realtà, ma antropocentrica: vuole estendere il tabù dell’antropofagia a tutti gli esseri animati. Ma così facendo impoverisce radicalmente l’esperienza della realtà che l’uomo ha la possibilità di fare: se dappertutto l’uomo incontra solo se stesso, se tutto è a sua somiglianza e tutti sono suoi simili, mai farà l’esperienza dell’altro da sé, dello straniamento, dell’irriducibile, del veramente diverso. Dappertutto incontrerà solo e soltanto se stesso. Questo finirà per impoverire anche i rapporti con gli altri esseri umani, che sono veramente suoi simili: senza poter più fare l’esperienza del diverso nei rapporti col mondo non umano, non riuscirà più ad accettare la diversità interna alla razza umana.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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