Voucher. Tanto caos per uno zerovirgola

La Cgil guida una battaglia di retroguardia contro il sistema dei voucher. Che invece servono, non sono pericolosi e soprattutto sono troppo pochi

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Molto rumore per uno zero virgola. Se è vero che non si capisce perché la Cgil abbia mobilitato 3,3 milioni di italiani per un quesito referendario come quello sull’articolo 18, conoscendone in partenza i rischi di bocciatura, c’è da chiedersi perché mobilitarli per rottamare i voucher. Come prevedibile, confermando il suo orientamento giurisprudenziale ostile ai quesiti creativi di nuova legislazione, l’11 gennaio scorso la Corte Costituzionale ha infatti respinto la richiesta di referendum denominata “abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”, frutto di un complicato taglia e cuci di leggi che sarebbe andato oltre l’abrogazione delle modifiche apportate dal Jobs Act allo Statuto dei lavoratori e avrebbe introdotto una nuova norma; ha ammesso invece, insieme a quello sulla responsabilità in solido appaltante-appaltatore, il quesito “abrogazione disposizioni sul lavoro accessorio (voucher)”. Uno «strumento malato» che «va abolito», sostiene Susanna Camusso, «il loro abuso determina una sommersione anziché un’emersione del lavoro nero e irregolare».

Secondo la legge, salvo elezioni anticipate (che congelerebbero di un anno la consultazione popolare) i cittadini potrebbero quindi essere chiamati alle urne tra il 15 aprile e il 15 giugno. Ma quanti sono i fruitori dei buoni da 10 euro lordi, acquistabili online, in posta, in tabaccai ed edicole e presso alcune banche con cui in Italia vengono pagate oggi le prestazioni occasionali di tipo accessorio? Davvero i voucher, come da storytelling sindacale d’ordinanza, rappresentano una strategia per eludere le norme sul lavoro, evitando la firma di altri contratti e approfittando della difficoltà dei controlli per sfruttare i più deboli tanto da giustificare un’adunata referendaria (i cui costi, se ci riferiamo a quella per l’abrogazione delle trivelle, dovrebbero aggirarsi sui 300 mila euro)?

Parlando di settori, dati Cgia di Mestre alla mano, il 60,7 per cento dei buoni lavoro sono stati utilizzati nel 2015 soprattutto nel terziario, in particolare nel settore alberghi e ristorazione (26,6 per cento del totale), il 12,4 per cento nel manifatturiero, il 2,4 per cento nel settore delle costruzioni e l’1,8 per cento nell’agricoltura. Riguardo al valore, invece, «il dato è di un miliardo e 15 milioni di euro: di che cosa stiamo parlando?», dice a Tempi Marco Cobianchi, firma di Panorama, esperto di economia e fondatore del progetto #Truenumbers. «Secondo uno studio di Enrico Giovannini, ex ministro del lavoro, il lavoro irregolare fa perdere ogni anno allo Stato 3 miliardi e 975 milioni di versamento di Irpef (dati 2013), corrispondenti a una base imponibile di 29,8 miliardi di euro non dichiarati. 3,9 miliardi a fronte di 1,1 miliardi di euro pagati con i voucher: di nuovo, di che cosa stiamo parlando?». E ancora: le persone che nel 2015 hanno riscosso almeno un voucher sono state 1 milione e 380 mila; il totale dei lavoratori italiani è oltre 23 milioni: e per la terza volta, di che cosa stiamo parlando?».

Siamo nell’ordine dello “zero virgola”, la verità è che in un paese che ha abolito i Cococo e i Cocopro, e che in assenza di altri strumenti trova nel voucher l’unica alternativa per remunerare i giovani fino ai 24 anni (altrimenti costretti ad essere pagati in nero), «i voucher sono maledettamente troppo pochi, dovrebbero essere almeno dieci volte di più e dovrebbe aumentare a 15, magari 20 euro il loro valore lordo». Chiedendone l’abrogazione il sindacato sembra chiedere infatti che le persone che lavorano saltuariamente debbano essere pagate in nero. E il governo che fa? «L’esecutore della Cgil che batte i tacchi promette di intervenire, lo ha detto il ministro Poletti, per “riportarlo alle sue ragioni originali”, cioè limitandone l’uso a come era prima della liberalizzazione avviata dal governo Renzi e da Poletti stesso nel 2013 e rimettendo gli stessi paletti che ne avevano impedito il successo negli anni precedenti».

Secondo i dati di #Truenumbers è il Nord che vince la gara dei voucher; Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna le regioni in cui sono stati venduti il 40 per cento degli oltre 115 milioni di voucher comprati nel 2015. In media le regioni del Sud dove si addensa il lavoro irregolare sono quelle che hanno usato di meno i voucher. L’alternativa non è quindi, come fa credere la Cgil, tra voucher e lavoro a tempo indeterminato, ma tra voucher e nero, «nella stragrande maggioranza dei casi ad essere pagati così sono persone tra i 19 e i 24 anni, questo vuol dire che i voucher stanno assolvendo la loro funzione: remunerare i ragazzi per i lavori saltuari. Per questo andrebbero totalmente liberalizzati».

La bufala dell’allarme abuso
La crociata del sindacato che innalza bandiere contro i voucher come simbolo della precarietà e del fallimento del Jobs Act, dopo averli per altro utilizzati («750mila euro di voucher utilizzati nel 2016», dice il presidente Inps Tito Boeri accusando la Cgil di averne utilizzati «in grande quantità», «sono circa 600», è la replica dello Spi Cgil, il sindacato pensionati che ha utilizzato i buoni per alcune tipologie di collaboratori) è bollata come «strumentale e ideologica» da Emmanuele Massagli, presidente di Adapt, il Centro Studi fondato da Marco Biagi, che dichiara a Tempi: «Il lavoro occasionale serve e i correttivi introdotti l’autunno scorso bastano a scongiurarne un uso improprio». Massagli ripercorre la storia dei buoni lavoro, dall’entrata nel nostro ordinamento con la Legge Biagi per remunerare attività di natura esclusivamente occasionale (norma che resta ferma fino al 2008 in mancanza dei decreti applicativi) ai successivi passi per liberalizzarli, fino al 2013, quando il Jobs Act innalza da 5 mila a 7 mila euro il limite economico netto percepibile dal singolo lavoratore (fissando però un tetto di 2 mila euro per il committente profit) e rende obbligatoria l’attivazione telematica preventiva del rapporto a voucher.

Non solo, per limitare ulteriormente la possibilità di abuso della prestazione, come il pagamento “grigio” (riconoscere cioè pochi voucher a fronte di tante ore di lavoro), «il correttivo del Jobs Act di questo autunno obbliga ad indicare nella comunicazione anticipata anche la durata della prestazione». I dati dell’impatto correttivo, ovviamente, non esistono ancora, «abbiamo però il dato della crescita del 35 per cento rispetto all’anno prima, che a differenza di quello che dicono i media e la Cgil, è un dato negativo: il voucher è sempre cresciuto di soglie superiori al 60 per cento anno per anno, questi significa che il terrorismo antivoucher ha funzionato». Tutto grazie a un bluff politico-sindacale, «dati Inps alla mano, in media una persona a voucher prende meno di 500 euro all’anno, cifra molto lontana dalla soglia di legge di 2 mila euro fissata appunto per ciascun committente profit, e troppo risicata perché possa portare all’attivazione di un mercato parallelo».

Facciamo il giochino di equipararli alle unità di lavoratori a tempo pieno, e sommando i “voucheristi” arriviamo a circa «71 mila lavoratori a tempo pieno su una forza lavoro di oltre 23 milioni». Facciamo anche finta di dimenticarci che al netto di assicurazione Inail e contributi pensionistici quanto resta nelle tasche del lavoratore (7,5 euro) è una cifra superiore a quella di molti contratti collettivi firmati dai sindacati (il costo orario di un contratto multiservizi per le pulizie è inferiore), «è curioso che la Cgil si scagli contro una soglia così positiva e 71 mila lavoratori di cui una percentuale è “utilizzata” dagli stessi sindacati».

Curioso ancor più se si pensa ai volumi del precariato “vero” generato dallo Stato: «Sarà più problematico per la Cgil che in Italia ci sia oltre mezzo milione di lavoratori pubblici nella scuola a tempo determinato da settembre a giugno», chiede Massagli, «circa 400 mila tirocinanti extra curricolari che hanno un rimborso spese variabile da Regione a Regione che ammonta in media a poco più di 400 euro al mese (ma che molto spesso più che un programma formativo svolgono un lavoro pieno) e stagisti, 100 mila tra borsisti e ricercatori, oltre 3,5 milioni di lavoratori in nero, oppure queste 71 mila persone, in buona parte pensionati e studenti, che prendono tra i 400 e i 500 euro all’anno?». La verità è che non esiste riscontro alla pericolosità del voucher. Si presta ad abusi? Tutto si presta ad abusi, anche il contratto a tempo indeterminato, pensate ai premi fuori busta, «l’unico correttivo auspicabile è arrivare a controllare l’uso del voucher nel modo più informatizzato possibile, per il resto lasciarlo libero».

Allargare i contratti intermittenti
Auspica correttivi invece Maurizio Sacconi, presidente della commissione lavoro al Senato: «Valuteremo ora in Parlamento se esistono le condizioni per correggere le disposizioni nella direzione posta dagli altri quesiti per evitare la contesa referendaria e con essa un conflitto di antistorica contrapposizione sociale prima ancora che politica». Per Sacconi, in questo tempo chiamato enfaticamente “quarta rivoluzione industriale”, la vera emergenza non sono le regole, ma «investire nelle competenze e nelle abilità quale fondamentale tutela dei lavoratori che rischiano di rimanere esclusi da un mercato del lavoro interessato oggi da cambiamenti epocali. Un referendum ci distoglierebbe dal vero problema, dunque, quello della occupabilità delle persone e produrrebbe solo un’ulteriore occasione di disgregazione sociale».

In questo senso il senatore sottolinea che eventuali restrizioni nell’impiego dei voucher dovrebbero accompagnarsi in primis alla liberalizzazione dei contratti intermittenti «che con la legge Fornero sono stati resi di fatto impraticabili, essendo stato vincolato il loro utilizzo a un decreto del 1923 (riferito a una tipologia di lavori dall’orario atipico), o a contratti collettivi nazionali (ma solo l’1 per cento di questi ne ha regolato l’uso), o a fasce di età che comprendono persone sotto i 25 anni o sopra i 55. Potrebbero invece rappresentare un’alternativa per lavori di breve periodo, ripetuti nel tempo ma dei quali è imprevedibile il quando, così da consentire a una parte di lavoratori pagati a voucher di venire regolarizzati attraverso appunto contratti di lavoro intermittente o a chiamata, come nel caso dei camerieri richiesti dalla ristorazione nei giorni di festa o in occasione di eventi. Poi si può immaginare qualche altra chirurgica restrizione, come l’esclusione di un settore particolarmente esposto a patologie come l’edilizia, oppure di limitarne l’uso fissando un tetto complessivo per azienda e non, come oggi, sul singolo lavoratore».

Qualsiasi disposizione in materia dovrà in ogni caso puntare alla regolazione di ogni spezzone lavorativo di breve periodo in modo da garantirne l’emersione: «Quando la Cgia di Mestre sottolinea che il lavoro remunerato con i voucher rappresenta solo lo 0,3 per cento del totale, non ci dice solo che esso non costituisce un mercato del lavoro parallelo (come avviene in Germania, dove quello dei mini-jobs rappresenta oltre un quarto del mercato del lavoro), ma anche che esiste un sommerso che continua a resistere a questa opportunità di emersione: perché in Sicilia, Calabria e Campania non abbiamo un uso di voucher come quello registrato in Lombardia, Veneto o Emilia Romagna? Eppure i lavori di breve durata nell’agricoltura, nel turismo, nei servizi ci sono. Invece di rottamare i voucher preoccupiamoci piuttosto del fatto che in una parte del paese nemmeno una modalità così semplice riesce a garantire l’emersione del lavoro nero. Quanti voucher sono stati utilizzati per esempio per le ripetizioni private a domicilio? Questa dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione: estenderne l’uso attraverso più robuste e mirate campagne ispettive negli ambiti in cui continua ad esistere il sommerso».

Camusso, di cosa parli?
Sacconi invita ad attendere i risultati del monitoraggio dei rapporti di lavoro tracciati per confrontarli con i pregressi prima del decreto correttivo del Jobs Act: «La tracciabilità che nasce dall’obbligo di comunicazione preventiva del tempo di lavoro consente oggi all’attività ispettiva una vigilanza anche sulla corretta qualificazione di quel rapporto di lavoro, e dunque di verificare la correttezza dell’uso dello strumento. Non si capisce quindi cosa voglia dire Camusso quando parla di “strumento malato” o quando si attacca all’età media dei suoi utilizzatori “che avrebbero bisogno non solo di sopravvivere ma di farsi un progetto di vita”. Il dato dello 0,3 per cento, ripetiamolo, non rappresenta alcun mercato parallelo, i lavori in questione hanno un evidente carattere complementare, non rappresentano di certo la risposta al bisogno di mantenimento, anzi garantiscono accantonamenti previdenziali e la copertura Inail: perché i camerieri e i giardinieri occasionali o i raccoglitori agricoli di breve termine non dovrebbero emergere? E in quale altro modo potevano essere contrattualizzati per lavori così brevi dato l’irrigidimento dei contratti a intermittenza e a chiamata di cui abbiamo parlato sopra, secondo la Cigl?». Ecco le cifre. Ecco di cosa stiamo parlando.

Foto Ansa

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