Vogliamo cambiare la Costituzione? Facciamo il federalismo, ma per davvero

Per porre un freno allo spreco di risorse pubbliche non bisogna riportare tutte le decisioni a Roma, ma uscire dalla logica dello Stato. Intervista a Carlo Lottieri

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Federalismo esperimento fallito? Parrebbe così visto che la riforma costituzionale Boschi-Renzi sembra consegnarci un paese più statalista con una Costituzione dove le Regioni di loro iniziativa non potranno fare praticamente più nulla. Il passo indietro rispetto all’autonomia che questi enti avevano conquistato è salutato favorevolmente perché è considerato una soluzione definitiva agli sprechi di risorse pubbliche. Eppure in questa campagna referendaria c’è chi, al contrario, ritorna a parlare di federalismo come una possibile soluzione alla malagestione. Lo ha spiegato molto bene il professore Carlo Lottieri – docente di Filosofia politica presso l’Università di Siena e direttore del dipartimento di Teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni – durante il suo intervento alla convention di Stefano Parisi “Energie per l’Italia” al MegaWatt di Milano (16-17 settembre). «In Italia si è pensato di andare verso il federalismo solo perché si è data alle Regioni più capacità di spesa. Ma questo non è federalismo», dice Lottieri a Tempi.

E quindi cos’è il federalismo?
Partirei dalla definizione di federalismo, un termine-concetto che evoca un insieme di entità indipendenti legate tra loro dal vincolo di un patto. In latino “foedus” indica un’alleanza che si stipula per rispondere a interessi comuni. Oggi, invece, le persone ritengono che uno Stato sia più o meno federale in base alle competenze e alla capacità di spesa che hanno gli enti territoriali. Invece un ordine federale nasce da entità che hanno una loro capacità di autogoverno e decidono liberamente di dare vita a un ordine nuovo. Una federazione risponde direttamente a queste entità, unite per far fronte a specifiche esigenze e al tempo stesso libere di gestirsi grazie a risorse raccolte nella propria comunità. In tal modo, ognuno cammina sulle proprie gambe e chi governa risponde dell’uso delle risorse. Una delle caratteristiche proprie del federalismo è proprio quella di responsabilizzare le classi di governo, ponendo un freno a sprechi e iniziative discutibili. Da noi, però, non c’è mai stato un patto federale tra comunità indipendenti e neppure un sistema fiscale che responsabilizzasse le realtà locali. Per questo non possiamo dire che il federalismo in Italia ha fallito. Le dirò di più: una federazione sfugge alle logiche della sovranità così come la intendiamo oggi ed è incompatibile con la nostra finanza derivata, che fa affluire le risorse raccolte a Roma per poi ripartirle.

Le macro-regioni, così come erano state pensate da Gianfranco Miglio, potrebbero aiutare ad andare verso un sistema veramente federalista?
A mio parere, quanto più il federalismo si basa su entità piccole, tanto meglio funziona. Perché Miglio parlò di macro-regioni? Perché tatticamente, strategicamente, di fronte allo strapotere dello Stato nazionale di formazione ottocentesca egli credeva necessario costruire realtà sufficientemente forti, che ponessero limiti alle pretese del potere centrale. Miglio sapeva bene cos’è il federalismo, ma un conto sono i desiderata, altra cosa è la realtà politica. Per questo ha ipotizzato le macro-regioni. Ciò che è importante in un modello federale è che venga meno la logica della sovranità. Non c’è un ente sovrano rispetto alle varie comunità: c’è semmai un accordarsi di queste realtà in modo da organizzare alcune cose. Mentre lo Stato moderno è simboleggiato da una piramide, l’emblema del federalismo è una tavola rotonda, dove nessuno sta a capotavola.

Se, come lei dice, il federalismo funziona tanto meglio quanto più le entità sono piccole, allora le stesse Regioni non vanno bene…
Certo. Immaginiamoci quanto potrebbero essere più competitive e concorrenti tra di loro realtà di taglia inferiore alle nostre regioni. Pensi alla Svizzera: 8 milioni di abitanti divisi in 26 cantoni. Potrebbe avverarsi un piccolo miracolo: i governati che governano i governanti.

Quindi sarebbe stato meglio abolire le Regioni invece delle Province?
Sì, ma con una postilla. Penso che in prospettiva sia meglio avere realtà piccole che si amministrano da sé, ma senza scordare il realismo di Miglio. Egli partiva dal fatto che in un contesto come il nostro solo entità di una qualche dimensione possono sfidare il centro. Se oggi immaginassimo di eliminare le Regioni, gli unici potenziali attori di un braccio di ferro con Roma, certamente ci troveremmo in una condizione ancora peggiore.

Al MegaWatt lei ha detto che un sistema federale comporta meccanismi competitivi e introduce la logica della concorrenza. Chi ha paura di questo? Chi ha paura del vero federalismo?
Le classi politiche, che ovviamente cercano di ridurre la propria responsabilità. Per loro è importante avere potere e risorse da usare, ma è bene non essere chiamati a risponderne. Il federalismo rende impossibile tutto ciò. In America gli Stati falliscono: non esiste la possibilità di un soccorso. Hai sbagliato? Riparti da zero. Noi in questi anni abbiamo salvato città in difficoltà e Regioni in dissesto, ma in tal modo abbiamo deresponsabilizzato la classe politica. Perché la Raggi vuole incontrare Renzi? Non perché le stia simpatico, ma perché servono soldi altrui per salvare Roma. Il federalismo fa sì che ognuno chieda i soldi ai propri cittadini e poi risponda di come li ha spesi. Nel tempo questa logica limita i disastri a cui siamo abituati.

C’è però chi contesta il federalismo proprio perché avrebbe accresciuto la tassazione e ampliato intralci, burocrazie e leggi che rendono complicata la vita di quanti fanno impresa.
L’obiettivo di queste critiche è il regionalismo. Il federalismo – che pure ha una sua complessità – è altra cosa. D’altro canto, potremmo così immaginare una Danimarca con una sola tassa, ma non una Svizzera, perché nel sistema elvetico le imposte sono in concorrenza e questo produce effetti positivi. Non è un caso che la Svizzera sia un’area a bassa tassazione. La federazione svizzera è la prova che la concorrenza fiscale non fa aumentare le tasse: come si può verificare ogni qual volta si applicano determinati princìpi. Anni fa la Toscana decise di aumentare il bollo auto spingendo un’importante azienda di noleggio auto a prendere in considerazione di trasferire la propria sede in un’altra regione. Così a Firenze si fece velocemente marcia indietro. Una virtù del federalismo è proprio quella concorrenza fiscale che spinge la tassazione verso il basso.

In Italia molti considerano federalista la regola, che sarà inserita in Costituzione, dei cosiddetti costi standard. Possono essere una soluzione per porre freno a sprechi e corruzione?
Un regionalismo come il nostro può trovare nei costi standard una toppa per evitare qualche spreco. Ma è la razionalizzazione di un sistema centralista: non è federalismo. In un sistema federale chi amministra la comunità tassa i cittadini e usa i soldi come vuole, assumendosi le responsabilità delle scelte. Chi sbaglia paga. Non c’è nessuno che interferisce con le scelte di chi amministra. Stabilire costi standard, invece, significa intromettersi nelle decisioni di chi governa. Il meccanismo concorrenziale che si attiva con il federalismo è più efficace di ogni controllo esercitato dall’alto, compreso quello che prevede una lista di prodotti e servizi (che devi costantemente aggiornare) a un prezzo uguale per tutti.

Ma i costi standard sono una strada più semplice del federalismo.
Sì, e forse possono ridurre qualche spreco, ma sono comunque un tentativo di fare funzionare qualcosa che non funziona.

Sempre al MegaWatt ha detto che il federalismo comporta un ripensamento del nostro modo di rapportarci alle istituzioni, implica una rivoluzione culturale. Cosa vuol dire nel concreto? Cosa dovrebbe fare un cittadino?
Il punto fondamentale è questo: cominciare a pensare il rapporto con gli altri fuori dalla logica della sovranità, fuori da tutta una serie di miti legati alla teologia politica. Quando dico che il federalismo si basa su rapporti orizzontali e non verticali, mi rendo conto che dietro non c’è solo una questione meramente costituzionale: c’è l’idea di desacralizzare le istituzioni. Questo va contro cinque secoli di storia europea, durante i quali lo Stato era pensato come un’istituzione in cui avere fede. Se Dio è eterno, lo Stato si vuole perpetuo. Dobbiamo invece avere uno sguardo laico nei riguardi delle istituzioni e vederle come cose umane, non divine. Occorre non avere nella testa miti risorgimentali e nazionalismi. Il federalismo implica riportare sulla terra quello che è della terra e lasciare che ognuno guardi il cielo come vuole.

Perché il meccanismo redistributivo oggi in vigore comporta danni sia per il Nord nella sua capacità produttiva, sia per il Sud dove crea una sovrapresenza del settore pubblico e della politica?
L’unificazione comporta l’introduzione di regole e criteri comuni per realtà diverse. Questo ha effetti non voluti disastrosi. Pensi alle conseguenze negative di una scuola di Stato dove un insegnante di Milano e uno di Palermo guadagnano allo stesso modo, con la differenza che il costo della vita nelle due città è diversissimo. Al di là dell’ingiustizia conseguente al fatto che uno vive bene e l’altro assolutamente no, una conseguenza terribile di questa situazione, di cui nessuno parla, è che al Sud c’è una spinta enorme ad entrare nel settore pubblico. In tal modo il Mezzogiorno finisce per avere un’altissima presenza di persone negli uffici statali, mentre il privato è debole. Inoltre un sistema come il nostro, dove l’economia è regolata in modo uniforme (si pensi ad esempio ai contratti collettivi nazionali di lavoro), rende quasi impossibile fare impresa al Sud. Immagini se a Bruxelles gli eurodeputati impazzissero e decidessero di creare dei contratti collettivi europei di lavoro come abbiamo fatto in Italia. Cosa ne sarebbe, ad esempio, della Bulgaria? Chi andrebbe in quel paese a investire sapendo che dovrebbe pagare i dipendenti come paga quelli tedeschi? Noi abbiamo fatto questo errore. Chi va a investire in Calabria se deve pagare i lavoratori come quelli della Lombardia? Per giunta, abbiamo cercato di risolvere questo problema con la redistribuzione, per compensare le difficoltà di un’economia reale ostacolata da questa regolamentazione.

Sul Giornale ha scritto che in questo paese ci sono aree, soprattutto del Nord, che danno allo Stato italiano molto più di quanto non ricevano in servizi, e altre aree, al contrario, che ricevono molto più di quanto non diano. Ci dica.
I dati sul cosiddetto residuo fiscale sono noti e drammatici. Pensiamo solo alla Lombardia: negli scorsi anni col giochino della redistribuzione sono spariti più di 50 miliardi di euro ogni anno. Sul sito Noisefromamerika.org ha più volte trattato questo tema Lodovico Pizzati, che a proposito dei dati del 2007 rilevava come ogni lombardo perdesse addirittura circa 6 mila euro. In questi anni è successo che in media un lombardo abbia dato allo Stato tra 5 e 6 mila euro all’anno più di quanto non abbia ricevuto in servizi nazionali e locali. Significa che una famiglia composta da quattro persone ha perso più di 20 mila euro ogni anno in opere di solidarietà a favore della spesa pubblica concentrata nel Sud. In un decennio si è vista sottrarre l’equivalente di un appartamento di proprietà. In nessun paese occidentale esistono situazioni simili a quella lombarda. Il risultato è che il Nord produttivo si trova sulle spalle un debito pubblico spaventoso e il peso del Meridione. Fino a qualche anno fa riusciva a sopportare tale situazione, ma ora sempre meno. Ancora peggio le cose vanno al Sud e confesso che non mi sento di condannare a priori chi nel Meridione lavora in nero, perché spesso è l’unica possibilità. Data la situazione economica, l’alternativa al lavoro nero è il non lavoro.

Venendo al tema della riforma costituzionale, cosa pensa del referendum del 4 dicembre?
Sono fermamente convinto che sia il momento di rivedere la nostra Costituzione. Vedo anche che qualcuno vuole parlare di federalismo, il tema è ancora vivo e mi fa piacere. Allora credo che si debba immaginare una Costituzione federale che non è quella proposta nel referendum di dicembre. A mio parere è il momento di convocare una costituente in cui ogni Regione abbia diritto di veto a garanzia di ogni comunità. Le diverse realtà che compongono l’Italia devono avere il diritto di dire “no” a una Costituzione che le penalizzasse. Devono essere libere di esprimere il consenso o meno ai documenti presentati.

Quindi una Regione potrà non accettare la nuova Costituzione?
Esattamente. Se si fa una Costituzione in senso federale si deve partire da un patto tra i territori. Federazione è un’alleanza che può esserci, ma anche no. Quello che voglio dire è che quando parliamo di federalismo in senso proprio occorre uscire dalla logica dello Stato.

È possibile?
È difficile, ma non impossibile, perché viviamo in un’epoca che vede sgretolarsi i miti ormai consunti della vecchia politica. Una costituzione federale nasce da un patto, da un foedus sottoscritto da comunità che vogliono stare assieme. Non è impossibile arrivare a questo: dipende da cosa viene proposto. Dovrebbero presentare una Costituzione in cui esistono garanzie di tipo fiscale e normativo per ogni singola realtà e poi altre garanzie in virtù delle quali, qualora una di queste realtà non si sentisse rispettata, potrebbe utilizzare le procedure per uscire dal vincolo. Questo è federalismo. Prenda la Brexit: il Regno Unito si è potuto svincolare dall’Unione Europea perché esistono procedure che lo permettono. La Gran Bretagna non si sentiva più tutelata dal sistema europeo e ha usato queste procedure per uscire. Fondamentalmente l’Europa è ancora un foedus tra Stati. Se le cose vanno male e non ho la possibilità di andarmene, il concetto di patto viene meno. La difficoltà a parlare di federalismo in Italia viene dal fatto che una vera federazione cancellerebbe un secolo e mezzo di esperienza di unità nazionale di taglio giacobino.

Vorrebbe dire anche chiudere tre o quattro ministeri che non servono più.
Certo. E chiudere una marea di flussi economici grazie ai quali tanti si arricchiscono o traggono di che vivere.

Si creerebbe disoccupazione e probabilmente una guerra civile…
Non penso a questo: né credo, comunque, che si possano evitare dolori e difficoltà. La crisi c’è e ci arriverà addosso sempre più pesantemente, soprattutto al Sud: perché dove un’economia reale esiste ancora il futuro non può essere del tutto terribile. Quando però la coperta è corta, qualcuno rimane senza. Al Sud si deve iniziare a pensare con la logica del lungo periodo; diversamente fra vent’anni esso si troverà in condizioni tragiche. Per evitare tale prospettiva si deve avere il coraggio di dire che nel Meridione ci sono tanti posti di lavoro fasulli, che la redistribuzione non è legata alla produzione e quindi non può funzionare in eterno. Bisogna avere il coraggio di guardare la realtà com’è, solo così ci sarà una svolta che potrà dare grandi risultati. Questa è l’unica alternativa al declino costante. Altrimenti, faremo la fine della rana bollita. Se la getti in una pentola d’acqua bollente, la rana si farà molto male, ma avrà uno scatto furibondo e tenterà in qualche modo di fuggire. Viceversa se la metti in una pentola d’acqua fredda e poi accendi il fuoco e aumenti il calore, ma lentamente, la rana si abituerà piano piano alla nuova temperatura, salvo alla fine ritrovarsi bollita! Noi progressivamente ci stiamo abituando alla situazione, non reagiamo e alla fine saremo morti. Bisogna allora avere il coraggio di andare incontro a un periodo di difficoltà, ma cogliere le opportunità di questa situazione. È difficile, ma lo ritengo necessario.

@daniguarne

Foto Ansa

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