Virginia, la “mamma” dei bambini profughi che sbarcano senza genitori: «Me ne prendo cura come fossero miei»

Intervista a Virginia Giugno, capo gabinetto del Comune di Pozzallo, dove ogni giorno «sbarcano 60, 70, 100 minorenni. Mi vengono affidati temporaneamente e con la Chiesa e i volontari cerchiamo di fare il possibile»

Amun, Wiam e Isis la chiamano mamma Virginia. Loro sono i minorenni sfuggiti prima agli assalti della guerra e poi alle insidie del mare, attraversato sui barconi fatiscenti di chi sfrutta le loro speranze. Lei è il capo gabinetto del Comune di Pozzallo (Ragusa), che di questi piccoli sopravvissuti si prende cura «come fossero miei».

«NON SI PUÒ RESTARE INDIFFERENTI». Virginia Giugno, 40 anni, due figli, spiega a tempi.it «di avere un ruolo cruciale nella vita di questi ragazzi. Quando li guardo penso alle loro mamme e mi immedesimo». Sarà per questo che le centinaia di ragazzi a cui trova un posto dove dormire, un piatto da mangiare, una scuola da frequentare, «quando se ne vanno di qui hanno le lacrime agli occhi». Laureata in lingue, questa donna non avrebbe mai pensato di avere a che fare con «tanto bisogno tutto insieme. Sì, facevo già la volontaria, ma mai avrei immaginato di vedere tanti minorenni arrivare soli. È la prima volta che accade e non si può restare indifferenti».
La capo gabinetto di Pozzallo racconta che deve «affrontare ormai ogni giorno una realtà di 60, 70, 100 minorenni che sbarcano ogni giorno: mi sono stati affidati temporaneamente, in attesa di essere collocati in strutture adatte. È durissima perché prima i barconi arrivavano sporadicamente. Ma lavorando con il paese, la Chiesa, il ministero e i volontari proviamo a fare il possibile».

«MAMA PLEASE SCHOOL». Ormai il numero degli sbarchi aumenta in maniera incontrollabile, le liste di attesa si fanno lunghissime e i minori vengono messi temporaneamente in strutture d’appoggio. «Chi mi aiuta di più è la Chiesa, che ci offre ospitalità gratuitamente. È un appoggio fondamentale». Ci sono poi i volontari, che con i ragazzi passano più del tempo dovuto. Virginia prova sempre a chiedere a tutti il massimo e loro rispondono: «Oggi i volontari si fermano oltre l’orario per portare i ragazzi al mare. Sono felice, mi spiace solo di non poterci andare io». Costruire una comunità in una fase delicatissima, anche se è solo di passaggio: è così che Virginia pensa al suo lavoro «e loro se ne accorgono». Sarà per questo che la cercano continuamente: «“Mama please school”, mi ripetono».

AMUN, WIAM, ISIS. Lei per loro vuole il meglio, ma non prova rabbia pensando ai genitori che li gettano sui barconi, «anzi, sento una grande compassione, perché so che è il tentativo estremo di farli sfuggire alla guerra o all’assenza di futuro». E i ragazzi lo percepiscono, mentre attendono che si liberi un posto nelle comunità di accoglienza italiane ormai strapiene. «Non riesco a dimenticarli, per questo quando arrivano in comunità non li mollo, mi informo su che fine hanno fatto e se a scuola vanno bene. Molti hanno successo». Come Amun, che ora frequenta le superiori a Torino ed è stato promosso a pieni voti, o Wiam «che mi ha mandato le sue foto mentre fa shopping», o Isis che sta per diplomarsi. «Sono determinati, attraversano l’oceano rischiando la vita per riscattarsi. Sanno che l’istruzione e la cultura sono necessari per costruirsi un futuro», spiega Virginia.

«LA VITA O LA MORTE». La donna li guarda e pensa ai suoi figli, «che all’opposto devo pregare di andare a scuola. Per questi giovani clandestini invece c’è solo la vita o la morte, tutto quello che noi ci mettiamo in mezzo per loro è superfluo». È così che aiutano lei «a guardare alle cose essenziali». E in tutto questo lavorare, dove ogni volto «te lo porti a casa», Virginia si accorge anche «della responsabilità che ho. Rappresento solo un tramite ma fondamentale. Quello che li porta da una vita all’altra».

@frigeriobenedet

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