Vietnam, quanto resisterà il regime comunista al popolo che vuole libertà?

Dopo gli anni del boom, dalle pieghe di uno sviluppo ancora frenetico emergono inquietanti segnali di crisi.

Reportage da Hanoi. Difficile immaginare, appena arrivati in Vietnam, che l’economia del paese stia passando un profondo periodo di crisi. Ovunque ci si imbatte in nuove strade e ponti in costruzione, futuri alberghi internazionali si fanno pubblicità con foto invitanti e grandi cartelli che annunciano “Coming soon!”. E poi palazzi, grattacieli, centri commerciali. Le città si espandono a ritmi rapidissimi e le attrazioni turistiche sorgono come funghi insieme ai campi da golf. È una realtà che contrasta duramente con fatti tragici come la morte di Pham Thanh Son, ingegnere di Da Nang, città del nord del paese, che nel 2011 si è dato fuoco davanti alla sede provinciale del Comitato del popolo per protestare contro il mancato risarcimento da parte del governo che aveva espropriato i suoi terreni. Ed è solo il più drammatico di moltissimi casi simili che si consumano nell’indifferenza generale. Tuttavia, mentre finora l’euforia del boom economico è riuscita a mascherare i gravi problemi del paese, oggi nelle parole dei vietnamiti aleggia un pessimismo inconsueto. I conti bancari non fruttano più come qualche anno fa; ottenere prestiti non è più così facile per imprese e privati.

Dopo una timida apertura al commercio e al mondo seguita alla fine dell’embargo americano nel 1994, il Vietnam ha avuto un decennio di crescita economica straordinaria grazie ai primi accordi commerciali con gli Stati Uniti. Nell’aprile del 2000, con la storica visita del presidente americano Bill Clinton, venticinque anni dopo la fine della guerra, i nemici di allora si sono stretti la mano e hanno iniziato a fare business. Nel tempo una pioggia di dollari americani è caduta sul paese. Altri imprenditori stranieri sono arrivati. Per dieci anni, il Pil del Vietnam è cresciuto di oltre il 7 per cento ogni anno, mentre la povertà delle famiglie si è ridotta del 73 per cento. Dal reddito da miseria di un dollaro al giorno pro capite all’impensabile ingresso del Vietnam nella fascia dei paesi di reddito medio secondo la World Bank (2010). Nel paese di Ho Chi Minh è nata la piccola borghesia. La scorsa estate, però, la Banca centrale ha dovuto ammettere che almeno il 10 per cento dei prestiti a imprese e privati nell’ultimo anno non erano stati ripagati, e da allora nel mondo finanziario internazionale si vocifera che il livello di rischio delle banche vietnamite sia in realtà molto più alto. Attualmente gli unici operatori che non risentono della crisi sono gli esportatori di riso, di caffè (il Vietnam è diventato il primo esportatore mondiale superando il Brasile) e di altri prodotti agricoli.

«Eppure trovare o ritrovare un posto di lavoro per un laureato con un buon curriculum non è un problema», racconta una giovane account conosciuta in treno. Laurea all’Università di Hanoi in economia e commercio, con un ottimo inglese e una sorprendente sicurezza di sé, la ragazza smentisce le molte voci secondo le quali, invece, in Vietnam non si va lontano senza la giusta raccomandazione e un buon bagaglio di relazioni.

In quanto a stile di vita, la giovane non ha nulla da invidiare alle donne occidentali. Anzi. Ma ancora oggi il Vietnam è un paese con fortissime disparità di censo. Lo testimonia anche il paesaggio quando ci si sposta dalla campagna alle città, e ancora più dal vivacissimo sud, dove sorge la capitale economica Ho Chi Minh (la vecchia Saigon dei francesi), al nord più tradizionalista e chiuso. Hanoi, la capitale politica, fatica in tutti i sensi a stare al passo coi tempi, a cominciare dall’altissimo livello di smog al traffico senza regole né semafori, dall’incredibile intreccio di cavi elettrici a vista alla trascuratezza del patrimonio culturale e artistico. Ma non c’è paragone con molte aree di campagna lontane dai centri turistici, soprattutto sulle montagne: lì si combatte ancora per fogne, acquedotti e reti elettriche, e l’80 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

Società e Chiesa in movimento
«Ci sono molti lavoratori senza nessuna qualifica e questo ha rallentato l’interesse degli investitori stranieri verso il nostro paese», dice la simpatica account tentando di spiegare le ragioni del crollo del flusso di capitali esteri in Vietnam. La crisi economica internazionale ha convinto gli investitori a recarsi in altri paesi asiatici, dove la manodopera si paga ancora meno che qui, dove all’aumento del costi del lavoro non sono seguite migliori infrastrutture né specializzazioni.

Il maggior imputato per lo stallo sembra essere il primo ministro, Nguyen Tan Dung, colpevole, secondo una larga fronda del suo stesso partito, di non aver realizzato il progetto di sviluppo economico che gli aveva assicurato la leadership. Le riforme, non solo economiche ma politiche, sono richieste in maniera pressante dagli Stati Uniti, un alleato sempre più stretto sul mercato e anche nel campo della difesa e della sicurezza, in particolare contro la Cina e le sue pretese sui diritti di sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas naturale nel Mare cinese meridionale. Dopo la caduta degli investimenti stranieri (meno 28 per cento nel 2011), una crescita del Pil rallentata a poco più del 5 per cento e il crack di alcune grandi industrie di Stato, forse solo per superare le divisioni del partito unico, a sorpresa il governo lo scorso gennaio ha chiesto ai quasi 90 milioni di cittadini di commentare la Costituzione approvata nel 1992. Solo un tentativo di prendere tempo fingendo un passo verso elezioni democratiche, libera stampa e maggiori diritti civili (in tema di proprietà, per esempio)? Qualche settimana fa un anziano membro “di peso” del Partito comunista, Nguyen Phuoc Tuong, in un’intervista al New York Times si è schierato apertamente per una svolta antitotalitaria: «Il sistema rischia di farsi fuori da solo, se non fissa nuove regole», ha detto. L’operazione referendaria, al contrario, sembra essere solo di facciata, anche se la società civile ha colto l’opportunità per dire la sua, per lo più attraverso petizioni anonime per evitare ritorsioni. Ma sono spuntate anche coraggiose proposte esplicite come quella di un gruppo di 72 intellettuali e quella dei vertici della Chiesa cattolica vietnamita, che da anni lotta per una reale libertà religiosa e reclama il diritto di proprietà sui beni ecclesiastici, troppo spesso oggetto di espropriazioni governative di dubbia legittimità.

Dissenso e repressione
La repressione è giunta puntuale. Blogger e altri coraggiosi attivisti che si sono esposti apertamente chiedendo un dialogo con le autorità di regime sono stati convocati e interrogati dalla polizia e hanno subìto perquisizioni e sequestri di computer, quando non arresti senza imputazione. Il documento della Chiesa cattolica è stato catalogato dal giornale dell’esercito vietnamita come «un’opportunistica iniziativa per opporsi allo Stato, al partito e al popolo». La strada per la conquista della democrazia sarà inesorabilmente dura, ma le necessità del mercato possono dare una mano. Per ora si annunciano prossimi investimenti in Vietnam del colosso americano di private equity Warburg Pincus. Domani chissà.

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