Vescovo di Hong Kong: «Aiutiamo la Chiesa in Cina a rinnovarsi e impariamo dal loro dolore»

Intervista al vescovo di Hong Kong John Tong Hon: «L’obiettivo è di essere un ponte per portare riconciliazione tra questi vari gruppi e promuovere una piena comunione della Chiesa in Cina con il Papa».

(tratto da ZENIT.org) – In collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), Mark Riedemann ha intervistato per Where God Weeps (Dove Dio Piange) il vescovo di Hong Kong, monsignor John Tong Hon. Hong Kong è un luogo dove l’Oriente incontra l’Occidente. Il 5% dei residenti del territorio è di fede cattolica e sotto la guida di monsignor John Tong Hon il numero è in crescita. Il presule, che è anche membro della Commissione vaticana sulla Chiesa in Cina, descrive i rapporti con il governo cinese come “calorosi” ed “aperti”.

Eccellenza, Lei è nato a Hong Kong ma presto si è trasferito in Cina.
…perché i giapponesi avevano invaso Hong Kong.

A quell’epoca, la sua famiglia non era cristiana. Come ha trovato la fede cattolica nella Cina comunista?
Mia madre aveva studiato in un liceo gestito dalle Suore Canossiane a Hong Kong. Dopo la guerra, ha deciso di abbracciare la fede cattolica. E’ stata la prima della famiglia a convertirsi. Noi abbiamo rapidamente seguito le sue orme. Siamo tutti stati battezzati a Guangzhou o a Canton, in Cina. La fede è stata seminata quando lei era studentessa alla scuola cattolica.

All’origine della sua vocazione c’è anche un missionario?
Dopo la II Guerra Mondiale, i nazionalisti e i comunisti hanno cominciato a combattersi fra loro. Abitavamo molto vicino alla Cappella della Missione. Eravamo molto vicini alla chiesa e al sacerdote. Sono stato testimone, ogni giorno, dei numerosi profughi e soldati feriti che si radunavano nei pressi della chiesa, chiedendo denaro, cibo e ogni tipo di aiuto. Il parroco era un missionario statunitense, della congregazione di Maryknoll, ed era pieno dell’amore di Cristo ed è questo che ho visto e che mi ha ispirato: il suo buon esempio. Mi sono detto, da piccolo, che da grande volevo essere come lui. Nel 1951, tutti i missionari stranieri sono stati espulsi. La Chiesa in Cina, a Guangzhou e molti cattolici ci dicevano che era meglio di lasciare il Paese. Questi stessi cattolici mi dicevano anche di diventare ministrante e forse di entrare in seminario. Ero troppo giovane in quell’epoca e non avevo la maturità e una conoscenza approfondita del sacerdozio, ma il buon esempio del nostro parroco ha seminato la vocazione sacerdotale nel mio cuore. La situazione difficile in quel momento ha facilitato la mia decisione di essere sacerdote. I miei genitori non hanno esitato e hanno accettato prontamente dicendo: “Perché no? Puoi lasciare la Cina, vai avanti”. E pian piano la mia vocazione si è rafforzata.

Lei è vescovo di Hong Kong e si concentra sull’evangelizzazione. Lei ha scelto due simboli per rappresentare questo impegno per l’evangelizzazione: una cisterna e il lavaggio delle mani. Perché questi due simboli sono importanti per Lei nel suo lavoro per l’evangelizzazione e che cosa significano?
Una volta, a Hong Kong, avevamo bisogno di cisterne per avere abbastanza acqua potabile. È fondamentale per la vita. Un proverbio cinese dice: “Se l’acqua non scorre, è morta”. Perde la sua utilità.  In questo senso la cisterna simboleggia la ricezione dell’acqua e, allo stesso tempo quest’acqua va usata e condivisa, altrimenti muore. Applicando questo simbolismo all’evangelizzazione, se noi riceviamo la nostra fede la dobbiamo condividere con altri come l’acqua nella cisterna. Condividendo la nostra fede, essa viene approfondita. Il lavaggio delle mani è simbolo della solidarietà e della reciprocità. È come il “costruire ponti” che io faccio in Cina. Da un lato, aiutiamo la Chiesa in Cina a rinnovarsi e allo stesso tempo noi impariamo da loro, dalle difficoltà che affrontano nella prassi della loro fede. Noi condividiamo la nostra fede con loro e noi impariamo dalla loro sofferenza e questo significa il simbolo del lavaggio delle mani.

Eccellenza, l’evangelizzazione conosce uno slancio straordinario a Hong Kong. Negli anni precedenti ci sono state circa 2.000-3.000 conversioni di adulti. Come spiega questo fenomeno?
Penso che la conversione dipenda dallo Spirito Santo, dalla grazia divina. Possiamo impegnarci quanto vogliamo ma senza la grazia di Dio la gente non aprirà il suo cuore. Questa è la prima cosa. In secondo luogo, Dio utilizza sempre noi come strumenti di evangelizzazione. Per questo dovremmo fare del nostro meglio. In una lettera pastorale, ho raccontato alla mia gente di nutrire quattro sogni. Il primo è l’evangelizzazione: dovremmo aumentare il numero di convertiti. Il secondo è la vocazione: il numero di vocazioni è lontano da essere ideale. I cattolici devono avere una mentalità missionaria. Abbiamo bisogno di sacerdoti per istruire i cattolici. Il terzo è la cura dei cattolici di altre nazionalità.  Oltre ai 350.000 cattolici cinesi, abbiamo 180.000 cattolici di altre nazionalità, di cui due terzi sono donne delle Filippine che lavorano a Hong Kong collaboratrici domestiche. Il quarto è di essere un ponte per i cattolici in Cina.
Lei vede la Chiesa a Hong Kong come una Chiesa sorella, un ponte verso la Cina. Come vede il ruolo dei cattolici di Hong Kong nei confronti di quelli della Cina?
Il cardinal Wu lo diceva sempre. a causa della nostra lingua e sangue comuni, siamo della stessa nazionalità. Tutti i cattolici dovrebbero mostrare la loro preoccupazione per la Cina. Dovremmo fare di più a causa della nostra vicinanza culturale e geografica; dovremmo essere una Chiesa “ponte”. Detto in modo più concreto: c’è una certa distanza e c’è sempre un conflitto tra la Chiesa sotterranea e la Chiesa patriottica. L’obiettivo è di essere un ponte per portare riconciliazione tra questi vari gruppi e promuovere una piena comunione della Chiesa in Cina con la Chiesa universale e con il Santo Padre . Questo è il nostro ruolo.

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