VERSO IL MEETING/8 Madagascar: epica africana di un’opera provvidenziale

Kabarin’Janahary significa «sia fatta la volontà di Dio» ed è ciò che ha imparato padre Stefano in Madagascar. Epica africana di un’opera provvidenziale

È a pochi chilometri da Nosy Be, controverso paradiso tropicale per turisti europei rotti a tutte le esperienze, ma la distanza basta a mantenerla intattamente malgascia: Ambanja è cittadina sonnolenta, scarsa di elettricità e di acqua corrente, attraversata da un fiume inquinato a causa della mancanza di fogne. Dalle campagne intorno, dove si coltivano il cacao, il caffè e la vaniglia, fino a qualche decennio fa arrivavano molti lebbrosi; oggi la patologia socialmente dominante è la tubercolosi, prodotto di cattiva alimentazione e cattiva igiene. Ci sono le scuole e c’è l’ospedale. Ma chi si vuole curare veramente, arriva in città con un indirizzo in tasca: Centre Medico-Chirurgical Saint Damien. Il nome del santo dei lebbrosi è lì a fare memoria delle origini della struttura, nata come lebbrosario che ha chiuso i battenti alla fine degli anni Ottanta.

Poco prima era arrivato nell’isola un giovane cappuccino italiano di Viterbo: padre Stefano Scaringella. È lui che al posto del lebbrosario ha aperto un ambulatorio di prima accoglienza con servizio di pronto soccorso, che poi nel 1988 si è trasformato nel Centro medico-chirurgico San Damiano, una struttura che ha un bacino di utenza di 500 mila persone e che tratta 60 mila pazienti all’anno. Accanto a questa ha creato, nei 28 anni della sua permanenza laggiù, una scuola infermieri, una casa famiglia per bambini abbandonati, una struttura per interventi mobili sul territorio. Nell’ospedale lavorano con lui 9 medici, 3 anestesisti, 28 infermieri, 7 addetti all’amministrazione e 66 elementi responsabili di tutti gli altri servizi. Padre Stefano è chirurgo, come pure 4 dei 9 medici attivi presso la struttura: una specialità assolutamente prioritaria a queste latitudini. Insomma, è un tipo che se la cava meglio coi fatti che con le parole. Ma che ci sta a fare un po’ il bilancio dell’esperienza e a soddisfare la curiosità di chi si pone domande intorno a questo piccolo miracolo malgascio.

Padre Stefano, lei è un religioso cappuccino e un chirurgo: come interagiscono queste due vocazioni?
Il nostro ordine, a differenza di altri, non ha un carisma particolare per il servizio della Chiesa e del popolo, ma si è sempre compiaciuto di un titolo anche oggi attuale: “Frati del popolo”. Per rendere servizio al popolo ciascuno trova un aggancio, un’attività a se confacente. Per me è quella del chirurgo e del promotore di un sistema sanitario in grado di dare risposte ai bisogni. Il fatto di essere un religioso e lavorare al sollievo della sofferenza è, senza dubbio, un’unica vocazione; non sono due vocazioni artificialmente giustapposte.

Perché proprio in Madagascar e perché un impegno così deciso nella sanità?
Il Madagascar, trent’anni fa, era il territorio di missione della Provincia cappuccina di Roma, quindi uno sbocco logico al mio impegno. Inoltre, era estremamente motivante perché, a parte qualche bella realizzazione dei nostri cofratelli di Strasburgo che ci hanno preceduto, c’era un grande vuoto, soprattutto nel settore della chirurgia.

Quali sono le caratteristiche qualificanti delle opere sanitarie da voi avviate: l’ospedale, gli ambulatori, il lebbrosario, la scuola infermieri, la casa famiglia?
Caratteristica principale delle opere è che l’azione del sollievo della sofferenza ci permette una testimonianza cristiana fatta di presenza e prossimità con la gente e nel massimo rispetto della cultura locale e di tutte le fedi religiose presenti. Questo tipo di presenza, scevra di pretese autoritarie ma ricca di concretezza, spinge gli animi ad una riflessione o almeno a interrogarsi sul significato cristiano della vita. Considerando il fatto che viviamo in una regione dove la maggioranza delle persone è animista o musulmana e che i cristiani sono una minoranza (dal 3 al 5 per cento), il nostro stile di presenza ci permette di essere, malgrado la pochezza dei numeri, un punto di riferimento. Nella regione noi siamo il solo ospedale in grado di praticare una chirurgia affidabile. Facciamo circa 300 parti cesarei all’anno, tutti assolutamente indispensabili. Con un intervento cesareo salviamo la mamma e la sua creatura, ma salviamo anche la famiglia e gli altri figli, li sottraiamo a un ben triste futuro. Un intervento di cataratta bilaterale giovanile può permettere ad una donna di vedere per la prima volta i suoi tre figli anni dopo la loro nascita.
Sinteticamente, riguardo alle opere cui lei accenna, direi le seguenti cose. Il Centro medico-chirurgico San Damiano lo abbiamo aperto nel 1988 e in questi anni via abbiamo eseguito più di 50 mila interventi di chirurgia. La Casa famiglia, nata più recentemente, ospita attualmente 27 bambine e 3 maschietti di età compresa fra gli 0 e i 13 anni. Sono orfani o figli abbandonati che ci vengono segnalati dall’autorità giudiziaria. La Scuola per infermieri, aperta nel 2003 grazie a un finanziamento della Cei, conta 150 studenti sui tre anni di corso, ed è autorizzata a rilasciare diplomi con valore legale. Le nostre unità mobili visitano regolarmente dodici villaggi della regione per garantire la salute sul territorio. Si occupano di donne in gravidanza e bambini (l’anno scorso ne sono stati visitati 14 mila circa presso i loro domicili). Si dedicano all’educazione dei giovani e giovanissimi per prevenire gravidanze precoci e aborti. Distribuiscono, quando ne abbiamo e ne ravvisiamo l’opportunità, latte in polvere alle neo-mamme.
Il lebbrosario, invece, non c’è più. Nel passato c’erano molti lebbrosi, ma ora, grazie agli sforzi fatti, sono molto diminuiti e i villaggi registrano piuttosto presenze numerose di malati di tubercolosi. Poi segnalo una nuova opera, socio-economica ma a sfondo socio-sanitario, che abbiamo avviato: la riforestazione e la riabilitazione dell’agricoltura nella regione di Befotaka, volta al miglioramento dell’ambiente e del regime alimentare della popolazione, troppo abituata all’assistenzialismo.

La cultura locale rappresenta un ostacolo o una risorsa in materia di sanità?
La cultura locale è stata un ostacolo nell’ambito della sanità. A parte qualche conoscenza di erbe medicinali e rimedi naturali per certe malattie, non si aveva nessuna nozione di igiene e della necessità di utilizzare presidi sterili. La medicina nella cultura locale era un tutt’uno con la magia. Progressi nel superare questa mentalità sono stati fatti.

Che cosa le pare di aver insegnato e cosa le pare di aver imparato in questi quasi 30 anni?
Penso che qualcosa del messaggio cristiano è passato nel cuore delle persone, e spero solo che non sia troppo distorto dal messaggero. In cambio loro ci hanno insegnato a fidarci di più della Provvidenza. Nel linguaggio di qui si dice: «Kabarin’Janahary», che tradotto significa: «Un discorso che riguarda solo Dio». È l’equivalente del nostro «sia fatta la volontà di Dio».

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