Vaccinato cura te stesso

Due esperti spiegano perché è antiscientifico ridurre il problema papilloma virus all’obbligatorietà di qualche puntura. «Il medico non ha la pretesa di salvare l’uomo ma di curare le malattie»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Diffondere paura propugnando tesi prive di fondamento e antiscientifiche è un atto di grave disinformazione» (Beatrice Lorenzin, ministro della Sanità). «Messe sullo stesso piano verità scientifiche e ipotesi aleatorie» (Società italiana di virologia). «È come gridare c’è una bomba in uno stadio affollato e vedere la gente che fugge e calpesta i bambini» (Roberto Burioni, virologo). «Chi fa la guerra ai vaccini è peggio dell’Isis» (Melania Rizzoli, medico e scrittrice). «Report non ha mai messo in dubbio l’utilità dei vaccini» (Sigfrido Ranucci, conduttore di Report). «Azienda da sempre a supporto delle campagne vaccinali» (Rai). «Attacco alla libera informazione, #IoStoConReport» (Beppe Grillo). «Nasce così un nuovo reato: il leso vaccino. E un nuovo dogma di fede: l’Immacolata Vaccinazione» (Marco Travaglio).

Universalismo scientifico contro riserva indiana: potrebbe essere questa la traduzione un po’ sommaria di quanto accaduto dopo l’ormai famosa puntata di Report dedicata al vaccino contro il papilloma virus. Perché un servizio di mezz’ora trasmesso il 17 di aprile (che sollevava dubbi sugli effetti collaterali di questo vaccino e sulla farmacovigilanza) abbia radicalizzato il conflitto tra apologeti e critici dei vaccini in generale è presto riassunto in questa dichiarazione del ministro della Salute Lorenzin: «Tutto ciò accade proprio mentre medici e scienziati di ogni parte del mondo, e mentre le istituzioni internazionali e nazionali sono impegnate in una campagna mediatica a favore della salute pubblica, per controbattere ai falsi miti degli anti-vax, che sfruttano paura e ignoranza per convincere i genitori a rinunciare ai vaccini».

A poco servono le scuse del conduttore di Report Sigfrido Ranucci affidate al Corriere della Sera: «Tutto questo è stato inteso come un servizio contro i vaccini obbligatori (…) di questo mi assumo ogni responsabilità. Ci tengo a ribadire l’importanza delle vaccinazioni obbligatorie e di quelle consigliate». Da allora non c’è giorno che stampa e tv non dedichino spazio al tema. Il 21 aprile Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss), annuncia la radiazione del dottor Roberto Gava con un tweet: «Grazie a Ordine medici Treviso per aver radiato primo medico per il suo comportamento non etico e antiscientifico nei confronti dei vaccini». La scorsa settimana il premier Gentiloni ha invitato i ministeri competenti a lavorare a un testo sull’obbligo vaccinale nelle scuole da portare al prossimo Consiglio dei ministri. Tutto risolto? Non tutto.

Il paradosso di questa divisione manichea dei ruoli che vorrebbe chiudere i conti con un processo secco tra scienza e coscienza, in questo profluvio di chiacchiere, in cui in molti passano di trasmissione in social o in festival per distribuire museruole accanto al verbo della palingenesi scientifica o antiscientifica (e captare un certo numero di attese elettorali), i dubbi si moltiplicano. Cosa diavolo è questo papilloma virus, e perché è così malamente discusso? Non si tratta di sottrarre alla scienza ciò che è della scienza. Anzi. Ma di ricordare che quando si parla di persona, oltre ai predicati scientifici e grillini, esistono anche predicati “etici” che sconfinano negli ambiti dove trovano cittadinanza domande scaturite anche da una concezione del bene. E quindi domande a cui è doveroso rispondere.

Alta probabilità di infezione
Carlo Federico Perno è professore di Microbiologia e Virologia all’Università di Roma Tor Vergata, nel cui policlinico è primario dell’unità complessa di Virologia molecolare. Lavora nel campo dell’Aids dal 1985 e ha contribuito alla scoperta di alcuni dei farmaci tuttora utilizzati per la terapia dell’infezione da Hiv. Autore di più di mille articoli scientifici e presentazioni a congressi internazionali, ha ricevuto nel 2001 il Premio Descartes della Commissione europea per l’eccellenza della ricerca. E prima di parlare con Tempi di papilloma virus premette: «I vaccini hanno cambiato la storia dell’umanità, facendo sparire malattie mortali per i singoli e per le popolazioni. È per questo che non sono un fautore dell’autodeterminazione dell’individuo sul vaccinarsi o meno: la protezione del singolo è la protezione del popolo. Chi non si vaccina non solo espone se stesso a rischio di malattia, ma permette la circolazione di germi pericolosi per altre persone. Questo soprattutto per quanto riguarda i vaccini conosciuti, da quelli contro vaiolo e poliomielite (la cui efficacia ha cambiato la storia sanitaria dell’Italia) a quello contro morbillo. Ci sono poi dei vaccini di cui sappiamo già molto ma non tutto, e tra questi c’è il vaccino contro l’Hpv, il papilloma virus, che richiede un discorso più approfondito e una valutazione nel tempo».

In Italia, spiega Perno, non esiste un sistema di registrazione delle infezioni da Hpv (come avviene per quelle da Hiv o da tubercolosi), si tratta però di un virus altissimamente infettivo e ad altissima circolazione. «La stragrande maggioranza di coloro che hanno una attività sessuale promiscua prima o poi vi entra a contatto. Ad oggi conosciamo circa 120 ceppi di Hpv, 7-8 hanno caratteristiche oncogene (ossia sono associati allo sviluppo di tumori), mentre altri (i ceppi 6 e 11, ad esempio) non sono oncogeni ma rimangono di grande interesse sociale in quanto presentano un altissimo grado di infettività: sono i virus che causano principalmente le verruche delle mani e dei piedi o i condilomi degli organi genitali».

Mediamente, le infezioni da Hpv guariscono spontaneamente in oltre la metà dei casi senza lasciare tracce o addirittura senza presentare sintomi; anche per questo una stima delle persone infettate non è possibile, ma, spiega il professore, «in Italia registriamo fino a tremila casi di cancro dell’utero e della cervice uterina associati ad Hpv ogni anno, e nel mondo il cancro del collo dell’utero è una delle prime cause di mortalità fra le donne in età giovanile. È dimostrato inoltre che tutti i tumori dell’apparato genitale maschile, tra cui soprattutto quelli del pene e dell’ano, sono correlati al papilloma virus e che può esistere una correlazione anche tra alcuni tumori cosiddetti della testa e del collo (carcinoma orale, faringe, eccetera)».

Contrarre il papilloma virus è decisamente facile, nel caso in cui si abbiano contatti con una persona infettata: anche se si registrano picchi nel periodo post adolescenziale tra i 20 e i 30 anni di età, non c’è periodo della vita sessualmente attiva che sia privo di rischi. Inutile secondo Perno soffermarci sulle cause determinate dai mutamenti delle abitudini sessuali, «certo è che il sesso resta il primo veicolo di trasmissione del virus che infetta mucose ed epidermide lesionata non solo per contatto ravvicinato ma anche interpersonale (è il caso classico delle verruche ai piedi prese in piscina). La correlazione del virus del papilloma con tumori non della sfera genitale dimostra che probabilmente c’è qualcosa di più della trasmissione sessuale del virus, che ancora non abbiamo caratterizzato».

Per le certezze serviranno anni
I vaccini anti-Hpv a disposizione oggi sono tre tipi: i più antichi, il bivalente (che immunizza contro i ceppi 16 e 18, che sono tra i più oncogeni e sono anche più frequenti in Italia) e il quadrivalente (16 e 18, ma anche i succitati 6 e 11, che, ricordiamo, non sono oncogeni ma sono altamente infettivi), si accompagnano oggi al nuovo vaccino ennavalente, che copre nove ceppi, i sette più oncogeni oltre al 6 e 11. Questi tipi di vaccini sono oggi proposti alle bambine in età prepubere.
Attenzione, sottolinea Perno: «Il papilloma virus non “causa” il cancro, ma “può causare” il cancro. Prevenire l’infezione significa prevenire la possibilità che si sviluppi un tumore, ma non tutti gli infettati lo svilupperanno, né l’Hpv è l’unica causa possibile di sviluppo».

Non sappiamo ancora se il vaccino garantisca l’immunità a vita. Mediamente, spiega Perno, sembra generare al pari di altri vaccini una risposta che dura molto a lungo, ma questo lo sapremo solo tra 20-30 anni, valutando i benefici e la tenuta nella prima coorte di vaccinate: era il 2008 quando l’allora ministro delle salute Livia Turco incluse il vaccino contro l’Hpv nei livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea), cioè le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale (Ssn) garantisce ai cittadini senza affidarle alla discrezionalità delle Regioni. Il vaccino offerto gratuitamente alle dodicenni e diffuso a macchia di leopardo suscitò reazioni nella comunità scientifica; da Michele Grandolfo (allora in forze all’Istituto superiore di sanità) all’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, in molti scesero in campo chiedendo cautela e sollevando obiezioni che, come vedremo, non sono ancora risolte. «Ad oggi – persegue Perno – possiamo parlare di una copertura che permane sicuramente per cinque anni; al momento, non possiamo fare previsioni oltre i dieci, anche perché si parla di tumori a lenta progressione, che compaiono cioè anche alcuni anni dopo aver contratto l’infezione, ma esistono studi che dimostrano che la strada verso la riduzione del rischio oncogeno grazie al vaccino anti-Hpv è stata imboccata».

L’immunità percepita
C’è un secondo interrogativo a cui si darà risposta solo nel tempo: esiste – per Perno è innegabile – la possibilità che altri ceppi occupino lo spazio di quelli immunizzati dal vaccino. «È quello che accade banalmente quando assumiamo un antibiotico per una faringite e insieme ai batteri responsabili della malattia distruggiamo anche quelli presenti nell’intestino, che contribuiscono a regolare le funzioni intestinali; il loro posto viene “occupato” da altri germi cattivi e abbiamo le diarree post-antibiotico. Non possiamo quindi escludere che altri ceppi virali prendano il sopravvento, ma questo – puntualizza il professore – da un lato non ci deve esimere dal considerare i vantaggi dati dai vaccini, dall’altro deve supportare il mantenimento dello screening di massa come strumento essenziale per la prevenzione». Quindi il vero pericolo non è il vaccino, ma la percezione di immunità che genera. La profilassi vaccinale è sicura nella stragrande maggioranza dei casi, spiega Perno, «chi dice il contrario mente sapendo di mentire. Ma una persona che si sente più “sicura” può paradossalmente esporsi a rischi ancora maggiori».

Per il professore il vaccino deve infatti essere inserito in un percorso più ampio di conoscenza: «Se una persona si sente “sicura” commette due errori madornali. Il primo è pensare di evitare o di poter seguire senza regolarità gli screening: ricordiamo che il vaccino è un sistema di prevenzione di grande efficacia, ma solo tra molti anni potremo attestare i suoi benefici a lungo termine e rivalutare la necessità dei controlli. Il secondo errore: le malattie a trasmissione sessuale sono tante e il papilloma è solo uno dei tanti virus che si possono contrarre andando incontro a malattie anche letali, dall’Aids all’epatite B, dalla clamidia alla sifilide, e tante altre. Il rischio è che, fatto il vaccino anti-papilloma, ci si senta incentivati ad un’attività promiscua con la convinzione di essere più protetti o aver ridotto le possibilità di infettarsi con qualsiasi germe. Non è così, la vaccinazione deve essere fatta in coscienza delle conseguenze dei propri comportamenti e sempre all’interno di un percorso di screening serio e responsabile».

«Non è un giudizio etico»
Oggi il pap-test, l’esame in grado di evidenziare lesioni pre-tumorali o lesioni del collo dell’utero a carico del Ssn per tutte le donne tra i 25 e i 64 anni, è stato superato dal test di ricerca del papilloma virus nelle secrezioni genitali. I test diagnostici di screening e di routine a cui viene sottoposta una donna a partire dall’inizio dell’attività sessuale «rappresentano in questo momento la più grande prevenzione del cancro». Se infatti non esiste una cura antivirale, esiste per uomini e donne infettati la possibilità di identificare immediatamente il virus, entrare in un percorso di follow up per vedere se regredisce spontaneamente e, laddove inizi a sviluppare lesioni, rimuoverle subito con interventi ambulatoriali minimali. «Grazie alla prevenzione diagnostica abbiamo ridotto enormemente l’incidenza del cancro alla cervice uterina e altri collegati al virus Hpv, che se ben controllato rarissimamente evolve in neoplasia». Facendo riferimento ai quasi tremila cancri annuali, Perno precisa infatti che si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di persone che si sottraggono ai controlli, come capita purtroppo alle immigrate o alle donne che, risultate negative al primo screening o al pap test, non ripetono l’esame dopo i canonici 3-5 anni.

Quanto alle obiezioni sollevate da Report sulla farmacovigilanza e gli effetti collaterali, Perno chiarisce: «Il vaccino contro il papilloma virus è sicuro, è promettente e la sua efficacia verrà valutata e validata nel tempo per capire come estenderlo alla popolazione», coerentemente al percorso che stanno seguendo anche altri vaccini come quello contro l’herpes zoster (noto come Fuoco di Sant’Antonio) o il vaccino influenzale. «Guai però a sostituirlo, oggi, agli screening, per le ragioni già elencate. Ricordiamoci che le malattie sessuali sono tutte malattie del comportamento. Il mio non è un giudizio etico, è un giudizio medico. Quando parliamo di trasmissione sessuale parliamo di un argomento più ampio del virus del papilloma. Il medico non ha la pretesa di salvare l’uomo ma di curare le malattie. La scienza non deresponsabilizza la coscienza delle persone».

Non sarebbe una priorità
Michele Grandolfo, epidemiologo, è stato per decenni dirigente di ricerca al Centro nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della salute dell’Iss. All’epoca sconsigliò il ministro Livia Turco dal promuovere la vaccinazione anti-papilloma virus sulle bambine e le sue obiezioni, spiega a Tempi, permangono: «Primo, è possibile il rimpiazzo dei ceppi oggi poco prevalenti per lo spazio ecologico che si libera. Secondo, è troppo impegnativa l’assunzione di persistenza di immunità indotta dalla vaccinazione rispetto alla storia naturale del tumore del collo dell’utero. Terzo, resta la necessità di continuare con lo screening e il pap test che, da solo, risolve meglio il problema. Da ultimo, non si può trascurare un effetto di riduzione della profilassi non immunitaria per il controllo delle infezioni sessualmente trasmesse, come la riduzione di adesione allo screening, cosa che si è già registrata in Australia». Per Grandolfo oggi il vaccino anti-papilloma non rappresenta «un impegno prioritario di sanità pubblica quando c’è necessità di fermare il sistematico smantellamento dei servizi sociosanitari di base come i consultori familiari e i centri vaccinali, che hanno sempre più difficoltà ad operare, soprattutto nelle aree di degrado sociale dove, peraltro, per le peggiori condizioni igienico sanitarie l’incidenza dell’infezione per l’Hpv è più alta».

Grandolfo sottolinea che se l’ingente impegno economico previsto per la profilassi vaccinale venisse impiegato per potenziare l’offerta attiva degli screening (che sono necessari a valutare e attestare l’efficacia dell’intervento vaccinale e se ben condotti risolvono sostanzialmente il problema che la profilassi si propone di affrontare) e la rete dei servizi preposti, si otterrebbe un impatto di sanità pubblica consistente non solo per quanto attiene la prevenzione del tumore del collo dell’utero ma per tutte le aree di intervento che attengono la salute della donna e di conseguenza della famiglia e della società. Una strategia vaccinale infatti è tale se definita all’interno di un programma di sanità pubblica e non di protezione del singolo: oltre al livello di risultato (l’immunità), e di esito (la riduzione o eliminazione della malattia), devono essere monitorati il funzionamento e le coperture vaccinali, soprattutto fra le persone caratterizzate da deprivazione sociale, quelle cioè maggiormente a rischio di contrarre l’infezione. All’epoca il professore denunciò la carenza delle coperture degli screening soprattutto al Sud, e la penalizzazione delle persone in condizioni socioeconomiche svantaggiate. Ma anche l’interferenza di messaggi fuorvianti che allora come oggi rischiavano di moltiplicare i dubbi.

Come durante quella puntata di Elisir in cui il professore Umberto Veronesi (che poi tornò sui suoi passi) consigliò alle donne di effettuare il pap test ogni anno, rischiando di delegittimare così l’offerta del pap test da parte della sanità pubblica con la periodicità di tre anni, stabilita secondo le raccomandazioni della commissione oncologica nazionale e del piano sanitario nazionale. Raccomandazioni che a Veronesi dovevano essere ben note, dal momento che il professore era stato ministro della Sanità.

Foto Ansa

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