«Non si può sdoganare l’utero in affitto. È e resta una compravendita di bambini»

L’inviata del Corriere Monica Ricci Sargentini racconta il suo viaggio in California, paradiso occidentale della maternità surrogata “etica”

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Un modulo online e 24 ore di attesa, tanto è bastato alla giornalista del Corriere della Sera Monica Ricci Sargentini per richiedere un appuntamento per avere un figlio con una madre surrogata ed essere ricevuta alla Santa Monica Fertility Clinic. Siamo in California, avamposto dell’industria della cosiddetta “surrogata etica”, come spiegherà alla giornalista Kim Bergman, direttrice di Growing Generation, una delle prime agenzie di surrogacy degli Stati Uniti: «La surrogata etica è la collaborazione tra adulti informati e consenzienti che si mettono insieme per aiutare qualcun altro. Dovreste venire in sala parto insieme a loro. È un banchetto d’amore».

Sargentini, madre di tre figli e giornalista specializzata nel dibattito sui diritti civili, parte per la California dopo avere seguito, il 22 novembre scorso, un incontro organizzato a Roma dal Gruppo delle femministe del mercoledì, «durante il quale – spiega a Tempi – molte femministe storiche attaccano il paradigma dell’utero in affitto come dono, denunciando lo sfruttamento delle donne dei paesi più poveri e il rischio che la stepchild adoption contenuta nel Ddl Cirinnà apra in qualche modo la strada alla gestazione per conto terzi. Decido di andare a vedere cosa accade negli Stati Uniti, dove il business dell’utero in affitto aumenta a ritmo esponenziale (si contano oltre duemila nati ogni anno, il triplo di dieci anni fa) ed è incoraggiato dalla società civile: qui la surrogata, vanno ripetendo le donne che hanno deciso di intraprendere questo tipo di gestazione, è un “gesto di altruismo”, un “atto d’amore” che “fa la differenza” nella vita di qualcuno. Inizia così il mio viaggio. Fingo di cercare un utero in affitto e quello che trovo supera ogni immaginazione».

La coordinatrice dei pazienti della Santa Monica Fertility Clinic Julie Webb sorride ripetendo che «tutto andrà bene, che penseranno loro a ogni dettaglio, dal prelievo dell’ovulo della donatrice al trasferimento dell’embrione nell’utero della portatrice, addirittura che avrebbe provveduto lei stessa a prelevare il neonato insieme all’avvocato qualora non fossi stata presente il giorno del parto. Poi scorriamo i profili delle donatrici di ovuli. Riesco anche a dare una sbirciata a quello delle madri surrogate, che porteranno il bambino in pancia per nove mesi». Le donne in catalogo sono bionde, more, ricce, lisce, bianche, nere, asiatiche: per ogni donatrice è elencata altezza, peso, scuole frequentate, hobby. Quanto alla portatrice, scrupolosamente selezionata, «mi viene ribadito continuamente che “la madre sei tu, lei non ha alcun diritto, si fa un contratto con l’avvocato, si va dal giudice a fare un atto di prenascita, decidi tutto tu”. Anche se farla abortire. Anche cosa deve mangiare. Anche se la preferisco ansiosa o posata. Molti, racconta Webb, scelgono una lesbica, così che non abbia rapporti sessuali con penetrazione durante l’attesa. O una portatrice che ha già fatto la surrogata, “solo che qui si sale di prezzo”, mi spiega indicando le donne “premium” sul catalogo. Io ascolto basita».

I costi: quasi 40 mila dollari per la donazione degli ovuli e 135 mila per la surrogata. Di questi, circa 40 mila dollari vanno direttamente nelle tasche della portatrice che percepisce un compenso per ogni singolo esame, visita medica, i viaggi, i vestiti, e un extra budget mensile. «Come si fa a non chiamarla compravendita? C’è un contratto, un pagamento. E c’è un mercato: il 50 per cento della clientela proviene dall’estero. Ed è facile immaginare le proporzioni di un business che ha ramificazioni in altri paesi e di cui beneficiano agenzie, cliniche, assicurazioni, medici, avvocati, oltre ovviamente le madri surrogate».

Ma non diciamo che si fa per soldi. «“Selezioniamo sono l’1 per cento delle candidature, tutte donne istruite dell’upper class”, mi racconta a Los Angeles la direttrice di Growing Generation Kim Bergman, “e se una non è disposta ad abortire la scartiamo”». Nel web reportage di Sargentini, ospitato insieme alla cronaca della visita alla Santa Monica Fertility Clinic sul blog del Corriere La 27esima ora, la Bergman ricusa ogni argomentazione femminista spiegando in cosa consiste la “surrogata etica”. Non ci sono “poveri” e “sfruttamenti” bensì “adulti consenzienti” e “banchetti d’amore”. Quanto alla remunerazione, essa è per “il disturbo”. «Ci vogliono quattro elementi – spiega – per fare un figlio: ovulo, sperma, utero e una casa». Le fa eco Mandy Storer, 32 anni, «“adoro essere incinta, non mi sono mai sentita sfruttata”, mi dice questa giovane mamma surrogata di Seattle, al lavoro per Growing Generation. “I bambini non sono miei ma dei loro genitori, io faccio il forno”. Si capisce: dopo gli ingredienti, il forno. Dopo avermi incontrato Mandy scrive un durissimo post contro di me sul suo blog dedicato alla promozione della surrogata. Questo perché durante l’intervista le cito la legislazione italiana e il caso dei gemellini contesi e affidati alla madre che li ha partoriti dopo lo scambio di embrioni avvenuto al Pertini di Roma. Mi accusa di malafede e ignoranza, oppone un discorso di libera scelta, amore e altruismo». Le stesse parole usate dalle madri surrogate dell’Agenzia Fertility Miracles, «non è certo per la parte finanziaria ma per quel momento in cui il bambino viene consegnato ai suoi genitori e loro lo prendono in braccio per la prima volta che si ha una ricompensa dell’intero percorso», assicura una di esse.

La morte di Brooke
Ma qualcosa può andare storto. «L’8 ottobre muore per rottura della placenta Brooke Lee Brown, 34 anni, otto gravidanze di cui cinque surrogate, pochi giorni prima di dare alla luce i due gemelli di una coppia spagnola. Muoiono anche i bambini. Casi come quello di Brooke agitano le agenzie di surrogacy già messe in crisi da imprevisti fisiologici: negli Stati Uniti ben 81 genitori negli anni hanno cambiato idea senza ritirare il bambino. E 35 donne si sono rifiutate di abortire: l’aborto, mi spiega John Weltman, fondatore della Circle Surrogacy di Boston, è l’atto che più divide genitori intenzionali e surrogate. È il caso di Melissa Cook e Brittenyrose Torres, portatrici di tre gemelli a cui è stato chiesto di abortirne uno. Si sono rifiutate venendo meno al contratto e questo significa affrontare i costi astronomici di un parto trigemellare. Per avere un supporto legale si sono rivolte al Center for Bioethics and culture, guidato da Jennifer Lahl». Filmaker e attivista, nel 2014 Lahl produce il documentario Breeders, a subclass of women (“Fattrici, una sottoclasse di donne”). Donne come Heather Rice, che durante la sua seconda gravidanza su commissione si rifiuta di abortire un bambino malformato. «La donna racconta di quel giorno da sola in sala parto. Il bambino viene preso e portato via dai genitori intenzionali. Heather, che non saprà più niente di lui, si chiede “perché, cosa ci faccio io qui?”».

I pezzi della giornalista hanno fatto molto rumore. È stata accusata da esponenti Lgbt di aver scritto articoli strumentali alla caduta del Ddl Cirinnà e da alcuni cattolici di aver fornito un megafono ai paladini dell’utero in affitto. È stata accusata di omofobia e di essere politicamente scorretta. Di contro, migliaia di donne e uomini hanno espresso orrore per le cose raccontate, ringraziandola e diffondendo i suoi reportage. «Le parole delle intervistate mi sembrano eloquenti più di ogni altra discussione. Il dibattito sull’utero in affitto oggi rompe storiche alleanze e radicalizza le posizioni. Io sono d’accordo che i figli già messi al mondo dalle surrogate vadano tutelati e non discriminati, non sono d’accordo invece con chi dice che siccome ci sono allora la pratica vada sdoganata. Questo – conclude Monica Ricci Sargentini – è un principio inaccettabile. La surrogata è e resta una compravendita di bambini».

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